Vocazione – articolo per un giornalino parrocchiale

È impossibile parlare della mia vocazione in poche righe. Essa è una lunga storia che va da quando feci un viaggio a Gerusalemme e avevo quattordici anni, a quando sono andato a degli esercizi spirituali con tre preti in un monastero di Francia, l’ultimo anno di università. Chi ha avuto modo di conoscermi ha forse sentito qualcosa di questo cammino.

C’è però un aspetto della mia vocazione che vorrei sottolineare. La vocazione al sacerdozio è del tutto particolare (al confine della regolarità di Gen 2,25 – e forse per questo subito in vista) ma è solo una vita cristiana, un modo di fare il cristiano.

Vorrei ridurre l’enfasi per chi fa scelte come la mia! Se oggi colpisce molto è solo nell’emozione delle cose che passano perché non vi è un vero interesse. Meglio enfatizzare poco i seminaristi e coltivare con loro un senso della vicinanza e della amicizia (sia io che te siamo entrambi uomini, entrambi viviamo la stessa vita con i suoi problemi).

Oggi si è cercato di ridurre lo stupore diversificando le vocazioni: si parla di vocazione non solo per i preti, ma anche per i mariti, le mogli, i lavoratori… Ma ancora non è tutto: il Signore Gesù non si è sposato, né era di una casta religiosa, né si realizzava in un lavoro. Era un predicatore laico che oggi sarebbe fuori da ogni schema di vocazione (ricordate la domanda: “da dove gli viene l’autorità?”). Perché la vocazione cristiana non è una “cosa” che uno fa a un certo punto e gli riesce (e “si realizza” come va di moda dire), ma è la fede come “cosa della vita” nella sua dimensione dell’ascolto, nella scoperta progressiva di ogni uomo che “qualcuno ha da dirci una parola e ci cerca ogni giorno”. Almeno se smettiamo di preoccuparci (ossessionarci) della nostra (auto)realizzazione.