Vincent Van Gogh: dal buio alla luce. Storia per i bambini della 5° elementare di Villa Cortese

Buongiorno!
Il buon giorno si vede dal mattino. Il buon giorno si vede? Certo che si vede! se il buongiorno non si vede vuol dire che non c’è luce, ma se non c’è luce allora è… notte. E di notte non si da il buon giorno ma la… buona notte. Ma la buona notte si dà anche a occhi chiusi, il buon giorno si dà a occhi aperti, anzi spalancati.
Sapete che per i pittori come me, i giorni sono così importanti che ce li mangiamo con gli occhi. Conditi con un po’ di luce, giorni azzurri, verdi, gialli, rossi, rosa. Giorni tristi e giorni allegri. Giorni brevi come panini e lunghi enormi minestroni. Giorni bizzarri come i cornetti o frizzanti come caramelle.
I pittori tengono gli occhi aperti e guardano, vedono, ammirano, spiano, contemplano e non finiscono mai di vedere e quando dormono vedono ancora… sognano. Tutti sogniamo. Voi fate sogni? Anch’io.

Io una volta ho sognato di essere un pittore. Ero vestito così: cappello, camicione, tavolozza, tela e pennello. Beh, non ero subito un arista… sono diventato un artista, prima ero un bambino come voi. Allora voglio raccontarvi questo mio sogno di come sono diventato un artista.
Voi direte: cosa ci interessa la storia di un artista? Beh, tutti voi avete visto almeno una volta un quadro o un disegno. Magari non il quadro di un grande artista, magari solo una fotografia su un libro di scuola. Sicuramente anche voi avrete provato almeno una volta a disegnare.
E se avete finito almeno un disegno, oppure se avete guardato con grande attenzione almeno un quadro, sapete che lì, da qualche parte nel quadro, in piccolo, c’è sempre un nome: Pablo Picasso, Michelangelo Bonarotti, oppure Leonardo ecc. Perché ognuno di noi ha un nome. Tu come ti chiami? E tu? Il mio, in questa storia, è Vincent Van Gogh [diapo1].
E dietro ogni nome c’è una storia. E il quadro è come una finestra aperta sulla storia di un uomo. Dietro ogni quadro c’è sempre una storia, come dietro ogni finestra c’è una casa e ci sono dei genitori (la mamma che cucina), dei fratelli (il più piccolo che non vuole fare i compiti, il più grande che picchia il più piccolo), e poi pensieri, desideri, dolori … insomma tutta una vita: tutta una vita sta dietro un quadro.
[diapo2] Per esempio, tu guadi questo quadro e ti sembra una stanza normalissima, anzi magari un po’ triste. Ma poi ti chiedi: ma è così importante disegnare una stanza, perché una stanza? Certo che non è importante, ma… se fosse la tua stanza? Per te la tua stanza non è importante? E poi se ti chiedi ma tu cosa provi quando stai nella tua stanza, e cosa quando disegna la tua stanza: eri triste, allegro, arrabbiato, stufo, annoiato…? Per esempio quando ho dipinto questa stanza – a voi non sembrerà – ma non volevo dipingere solo un letto e un tavolo, volevo dipingere il riposo, la fine del chiasso, della scuola, dei compiti… La mia stanza rappresentava il riposo. E subito dopo averlo dipinto ho scritto una lettera a mio fratello dove gli spiegavo: “Mi è venuta una nuova idea ed ecco l’abbozzo che ne ho fatto… Questa volta si tratta semplicemente della mia camera da letto, solo che qui il colore deve far tutto, e accentuando, così semplificato, lo stile degli oggetti, dovrà suggerire il riposo, o il sonno in generale. In una parola, guardare il quadro, dovrebbe riposare la mente, o meglio la fantasia.
Dietro ogni quadro non c’è soltanto quello che il quadro rappresenta (una stanza, una sedia, un tavolo) c’è una vita.

[musica]

[diapo1] Ecco allora la mia vita da pittore, nascosta dietro i miei quadri. Ah, da piccolo non volevo fare l’artista, perché dove vivevo io – lontano da qui, in un paese che si chiama Olanda – non c’era quasi nulla, non c’erano gli artisti, non c’erano le sculture nelle piazze o i quadri nelle case. Tutti eravamo poverissimi, ma leggevamo moltissimo i racconti della Bibbia. E i racconti della Bibbia ci riempivano le giornate e anche se pioveva sempre e il cielo era sempre un po’ grigio e c’era poco il sole e non avevamo molto da mangiare… non eravamo mai tristi e non ci mancava nulla. Così mio padre, che era un uomo che la Bibbia l’aveva letta tutta più di 100 vote, mi insegno a leggere la Bibbia anche da solo. E alla sera mi mettevo lì, e leggevo, e leggevo, e iniziavo a immaginarmi tutte le storie: vi siete mai immaginati Mosè quando scende dalla montagna, rosso paonazzo in viso, che rompe le tavole dell’alleanza? O avete mai immaginato il volto di Abramo, pallido, quando scopre che deve uccidere suo figlio?
Così, un giorno dissi a mio padre, e a mio fratello Matteo a cui volevo molto bene, che avrei voluto diventare un prete e insegnare agli altri tutte queste storie della Bibbia e il momento in cui Dio quando diventa amico degli uomini. Così iniziai ad andare in un Seminario, ma… allora avevo due difetti: che mi arrabbiavo per nulla e che non ero proprio bravo a parlare. Cioè, mi impapinavo nel discorso e poi non sapevo più come andare avanti, e poi sbagliavo i verbi… Così non mi vollero in seminario. Tentai ancora, ma nulla.

Fino a che un giorno andai in un paesino poverissimo dove vivevano molti contadini e molti minatori che passavano tutto il giorno nei campi a zappare o sotto terra a scavare e a tirare fuori il carbone o il ferro…
Avete mai provato a scendere in una miniera? La prima volta che l’ho fatto ho scritto a mio fratello per raccontarglielo: “Scendere in una miniera è una sensazione molto sgradevole. Si scende in una specie di cesta o gabbia, come un secchio nel pozzo. Ma qui si tratta di un pozzo profondo 500-700 metri, così che quando si guarda in alto dal fondo, la luce del giorno ha le dimensioni di una stellina nel cielo.” [1879].

[diapo3]
Ecco, lì cera il buoi. Tutti erano poverissimi, ancora più poveri del paese dove ero nato io. Non sapevo cosa fare. Per prima cosa feci come mio padre mi aveva insegnato e rilessi tante volte le storie della Bibbia, fino ad impararle a memoria. Ma poi non sapevo come raccontarle e tutte le volte che ci provavo, qualcuno si addormentava dopo i primi minuti. Non ero proprio bravo a raccontare le storie… E di questo ero molto, molto triste.
Ma fu lì che cambiai idea: non farò il prete, non racconterò la Bibbia come i preti. Racconterò la vita come nella Bibbia, ma non con le parole, con immagini. Non con Mosè e Aronne e Abramo… con la gente e le cose che vedo tutti i giorni.
Presi in mano la matita, e cercai di guardare in modo diverso tutto quello che vedevo. Per esempio, una sera fui invitato da una famiglia a mangiare. Erano così poveri che potevamo mangiare soltanto patate. A un certo punto mi alzo dal tavolo e guardo la famiglia che mangia in silenzio. Ecco: qualcuno avrebbe visto soltanto povera gente che mangia patate e beve caffè. Io invece riuscivo a vedere di più: c’era una lampada proprio sopra tavolo! Poteva benissimo esserci il sole alla finestra o un sacco di candele che facevano luce a festa, ma allora non sarebbe stata importante la luce. E invece con quella piccola lampada la luce diventava preziosa, e non mi importava più delle patate sbollite che mi stufavo a mangiare. La piccola lampada, era diventata importantissima. Senza, saremmo restati al buio. E invece non eravamo al buio nella stanza. Subito mi venne in mente: Dio non spegne il lumino piccolo e fumigante… chissà, magari un luce forte e chiara a Dio può farla finire, ma questa lampada qui, sicuramente non smette mai. Ora, lei c’era e non solo dava luce, dava calore, dava i bianchi, i marroni, risaltava le ombre delle mani, il luccichio degli occhi. E mi permetteva di vedere le mani che ora mi sembrano fatte come sono fatte le patate, a tocchi. Non belle delicate e rosee, ma le mani che hanno scavato la terra, tenuto per ore la zappa, fino a essere fatte di calli… e quelle stesse mani ora andavano verso il piatto, a prendere le cose che loro avevano prodotto. Allora volevo parlare di come onestamente questi uomini si siano guadagnati il cibo che ora mangiavano, di quanto questo cibo gli sia costato e il lavoro gli abbia dato dignità.
E’ come se le cose che vede abbiano sopra una pellicola, una pellicina, il più delle volte di indifferenza.

Allora scrissi a mio fratello che avevo deciso di fare l’artista e non più il prete. L’artista! A cosa serve l’artista? – mi chiese mio fratello. Beh, tutti sappiamo l’utilità dei contadini nel mondo. I contadini piantano e fanno crescere, le patate o il grano, e dal grano il mugnaio fa la farina e dalla farina esce il pane. Decisamente non si può vivere senza pane!
Ma senza arte? Si potrebbe vivere senza musica, senza poesia, senza teatro, danza, scultura, pittura? Forse la vita avrebbe un sapore diverso e non sarebbe più così buono… Perché quando io disegno, o suono o scrivo, succede qualcosa di buono, come un incantesimo! Il tempo si ferma e con un tocco di matita o di pennello quello che uno ha dentro al cuore, viene fuori. L’invisibile, diventa visibile. Il pennello è come una bacchetta magica: quello che tocca trasforma e la tela bianca si colora, si riempie di storie e di figure. E la cosa più insignificante diventa preziosissima.
Presi carta e penna e scrissi a mio fratello: “E’ bene continuare a credere (anche da grandi – perché è proprio una cosa da grandi) che tutto è più miracoloso di quanto si possa comprendere, poiché questa è la verità. E’ bene rimanere sensibili (con gli occhi aperti) e umili e miti di cuore, anche se a volte risulta necessario nascondere i propri sentimenti; è bene essere esperti in tutte quelle cose che sono celate ai sapienti e agli inteligentoni, ma che sono rivelate, come per natura, ai poveri, ai semplici e agli artisti. L’infinito e il miracoloso ci sono necessari ed è giusto che l’uomo non si accontenti di qualcosa di meno e che non sia felice finché non li ha conquistati.”.

Ve lo dimostro andando avanti nella storia.
Deciso a non fare più il prete, dopo qualche anno, mio fratello mi invitò a Parigi. Lì conobbi tantissimi artisti e mi soprattutto un grande amico, Paolo. Non avevo avuto molti amici per ora, diciamo che avevo soprattutto mio fratello. Ma Parigi era troppo incasinata, macchine, musica e non riuscivo più a vedere le cose magiche come prima, a togliere la pellicola alle cose. C’era troppo rumore e allora decisi di andarmene al mare, in un posto dove la luce era dorata, i campi verdi, il tramonto rosa, il cielo azzurro… tutta un’altra cosa rispetto a dove ero nato. Lì dipingo tantissimo, e togliere quella pellicina di indifferenza ai campi o al cielo o ai volti delle persone mi sembra semplicissimo [diapo]. Lì invito Paolo, ma dopo qualche tempo, per via del mio caratteraccio, iniziamo a litigare. E Paolo decise di andarsene. Sentii come una spina fortissima nel fianco, come un dolore allo stomaco… e non mi passava, per nulla… e poi mi prese quel mio caratteraccio, mi sembrava di essere come uno di quei tori alla corrida, che dopo che sono sconfitti il crudele torero gli taglia un orecchio e lo offre a una donna. Presi un rasoio e mi tagliai anch’io l’orecchio per ricordarmi della mi sconfitta e lo offrii a una ragazza. Il dolore passò.
A questo amico io desideravo far capire che un buon quadro deve corrispondere a una buona azione, ogni quadro veramente buono è come una buona azione (quei fioretti o quelle promesse che si fanno). Ecco: ogni quadro veramente bello, anche per chi lo guarda, è più di una buona azione. E sicuramente corrisponde a una buona azione.
Prima di andarmene per sempre volevo ancora fare una buona azione. Una buona azione per il mio amico che se n’era andato. Un buon quadro per non dimenticarmi di Paolo.

[diapo]. Voi vedete solo una sedia, forse l’oggetto più comune che tutti hanno. Ma io gli ho tolto la pellicina che ha sopra e l’ho trasformata, questa sedia, in un buon quadro. E un buon quadro è come una buona azione. Van Gogh sapeva ascoltare – parlare è facile ma ascoltare è difficilissimo – e sapeva togliere la pellicina che rende le cose tutte uguali e inutili.
Tolta la pellicina non è più una sedia: è il posto vuoto del mio amico. Non solo del mio amico Paolo, di ogni amico di chi guarda il quadro e vede una sedia trasformata. Il quadro trasforma le cose inutili e gli fa raccontare storie nuove.
Per esempio, un bambino guardando questa sedia si inventò la storia della sedia vuota.
Sentite:
“C’era un uomo molto malato che nessun medico sapeva guarire. Chiamarono un prete per confessarlo, ma il povero malato non aveva più voce. Allora il prete prese una sedia vuota e la mise vicino al letto. E disse: quello che non riuscite a dirlo a me, ditelo con il pensiero a Dio perché sicuramente quando verrà per prendervi si siederà su questa sedia e vi ascolterà. E andò via. Quella notte il vecchio morì ma la mattina dopo non lo trovarono sdraiato sul letto, ma seduto in braccio alla sedia!”

Ecco, come si trasformano le sedie…
Per Van Gogh la sedia ha trasformato il dolore e il tradimento di un amico che è andato via, in una attesa, in “una cosa che aspetta”, in un senso di felicità.

“Una sedia vuota è sempre in attesa di qualcuno. Van Gogh non aveva più amici e si sentiva solo. Allora scappava nei campi, si tuffava nel grano, si bagnava nell’acqua, e quando tornava a casa vedeva solo una sedia, vuota. Guardava la sedia e aspettava. Dipingeva, guardava e aspettava. Cosa aspettava? Che arrivasse un amico. Tutti hanno bisogno di un amico vicino. Una sedia è sempre in attesa… E ora…”

[canzone]

In un angolo di casa
Tra un divano e una credenza
Fa sentir la sua presneza
Una vecchia sedia gialla

Narra la sua paglia sfilacciata
Di giovani pittori
Notti piene di colori
Luci, ombre e oscurità

Narrail suo chiaro legno giallo
La ricerca di qualcosa
Di una presneza nuova
Che dia senso all’esistenza
che dia senso alla realtà

In quell’angolo di casa
Testimone degli affanni
Del passar di tempo e anni
La speranza che Lui verrà.