VII domenica dopo il martirio

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Un’immagine che tiene assieme queste letture è forse quella di Dio come un agricoltore. Isaia dice: “faccio una cosa nuova –dice Dio– proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?”, così San Paolo richiama immagini agricole simili e conclude: “…ma era Dio che faceva crescere”. E il Vangelo può essere una espansione della parabola di Marco che in un versetto diceva: “il Regno di Dio è come un uomo che getta il seme nella terra, sia che dorma sia che vegli, la notte e il giorno, il seme cresce senza che egli sappia come”.

Viene da chiedersi: è ancora così? Dio è ancora un protagonista della storia oppure ora che sappiamo tutto su come crescono i semi e le piante davvero nulla ha più a che fare con Dio? Ovviamente, la domanda non è rivolta ai semi, ma al mistero della nostra vita: riconosciamo Dio come protagonista della nostra storia, c’è uno spazio per Lui, fosse anche solo uno spazio di mistero?

Tuttavia, in queste parabole non c’è soltanto il mistero di una forza che fa crescere e che non riusciamo a spiegarci, non c’è soltanto la sproporzione tra la senape e l’albero grande o tra la pasta e la sua lievitatura. Questo mi sembra soltanto un aspetto e forse neanche il meno scandaloso. La cosa che più mi stupisce è la modalità con cui il seme cresce e la pasta si lievita. Su questo, il Vangelo dice due cose: 1) il Regno cresce scandalosamente assieme al male e non puoi avere la fretta di sradicarlo tu (scandaloso!). 2) il Regno cresce da semi immersi nella viva terra o da un lievito impastato con tutta la pasta: ovvero, è ciò che coinvolge la totalità della persona, ciò che interamente si lascia immergere (“si lascia morire” dirà Gesù) o si lascia impastare che genera un cambiamento. L’accento non è sulla piccolezza del seme, ma sull’effetto che produce una volta seminato, una volta messo in contato con tutta la vita.

Sul primo punto non vorrei fare commenti, ma mi limito a dire che ciascuno nella vita ne ha fatto o ne farà esperienza. E non solo l’esperienza di vedere nella Chiesa il buon grano affianco alla zizzania, ma (molto peggio) di vederlo anche in sé stessi. Sul secondo punto invece vorrei fare questa osservazione: forse proprio perché il lievito chiede di essere immerso in tutta la pasta, il tempo della crisi è per tanti di noi un tempo così propizio per un nuovo incontro con il Signore. Oppure, come dicevano gli antichi: crisi e grazia hanno una etimologia comune. In che senso? Nel senso che ogni crisi mette in gioco la totalità della propria persona, contiene una domanda che tocca le corde più profonde di noi, ci scuote nelle viscere. Penso sia lì che deve penetrare la buona notizia del Vangelo, quell’appiglio incrollabile della bontà di Dio… Del resto, il Signore ha attraversato il Getzemani e intendeva proprio questo suo momento quando diceva: “il chicco di grano non dà frutto se non cade in terra e muore.”

Non voglio dire che ogni crisi è subito un grazia, quasi a mistificare il dolore. Non fraintendetemi. Anche perché che il Vangelo ci tocchi nel profondo in questi momenti è soltanto una possibilità. Tuttavia, proprio questa mattina una ragazzo di scuola mi ricordava che non sarebbe maturato tanto senza il dolore per la malattia della nonna… lo capiscono anche i ragazzi che ci sono esperienze che “mettono in moto tutta la pasta della persona” quella profonda della vita e che spesso sono esperienze dolorose. Il vangelo penso debba stare lì, come quel semino nel terreno arato. La scrittrice britannica J. Rowling, nel suo discorso ai ragazzi neolaureati di Harvard del 2008, invece che complimentarsi del loro successo li ammonisce a guardare più di tutto ai fallimenti della vita, perché: “fallire vuol dire spogliarsi dell’inessenziale”. Far morire qualcosa, far penetrare il seme nel terreno, come impastare il lievito, penso sia qualcosa nella vita che ha a che fare con tutto questo e che prima o poi coinvolgerà ciascuno di noi.