VII Domenica dopo il Martirio del Precursore

Is 43,10-21; Sal 120; 1Cor 3,6-13; Mt 13,24-43

Dobbiamo cercare di uscire dal “già noto” quando leggiamo il Vangelo. Oggi, ci facciamo aiutare dalle diverse interpretazioni (una pluralità) che la chiesa ha dato a queste parabole di Gesù o “immagini” del Regno.

La domanda di partenza è semplice: cosa è questo semino di senapa o questa “pasta acida” (o lievito) del vangelo? E cosa è questo albero grande o questi 150 Kg di pane?

Una prima interpretazione ha visto nella Chiesa questo albero, sentita come un fatto miracoloso. Questa chiesa storica che da un gruppo di poche persone in Palestina coinvolge oggi il mondo intero (chiesa universale, si dice) e sembra essere stata mossa da una forza come tra un seme e l’albero. Agostino paragonava la chiesa a una luna crescente che attende di risplendere piena. Loisy –padre del modernismo– disse, in senso cattolico: “Gesù annunciò il Vangelo e venne la chiesa”. Lo intendeva in questo senso: c’è una forza che la abita.
I limiti di questa lettura sono tanti. Il sinodo dei vescovi ha oggi come tema la “nuova evangelizzazione”. Come mai “nuova”? Forse che quella pianta robusta non sia proprio come si immaginava? O che questo “essere albero” dopo tanti secoli stia appassendo? E poi: chi mi dice che la trasformazione non includa un tradimento, che la chiesa non sia altro rispetto al suo seme?

Una seconda lettura più “sociologica” –in voga soprattutto negli anni ’70– ha corretto la prima. Per allargare gli orizzonti clericali, l’albero non è più la chiesa ma il mondo stesso e la forza del seme o del lievito è la chiamata a cambiare la società che si vive. Trasformare la scuola che si abita, la famiglia che si ama, il lavoro che si svolge.
Anche qui, il limite di questa lettura è storico ed esegetico di una identificazione troppo facile. Questo intendeva Gesù? L’albero è davvero un mondo da cambiare in migliore o questa è una pia utopia (anche un po’ idealista)? L’identificazione stretta tra Regno e “azione sociale” crea più di qualche problema. C’è differenza tra il Regno futuro di Dio e una società rinnovata?

Una terza lettura –diremmo “individualistica”– è diventata allora molto attuale. La senape, o la pasta acida, sono il pungolo del Vangelo che dimora in me. E’ quella domanda insaziabile (anche se piccola) che mi rode dentro, è l’inquietudine di Agostino. L’albero o la pasta da fermentare è tutta la mia vita, tutte le mie azioni, o — secondo lo Shemà– tutto il “cuore e la mente”. La forza trasformante diventa allora una forza “unificante” della nostra vita: è l’interezza della mia vita che deve diventare cristiana. E’ la lettura Agostiniana che vede il segreto in un principio etico: come “amore” che non può non coinvolgere tutto.
Anche qui però il limite è evidente: il Regno è “dentro di noi”, ma è proprio vero che si identifica con la mia conversione? Questa lettura non è influenzata da un certo individualismo o soggettivismo moderno lontanissimi dal modo di pensare di Gesù?

Vorrei allora confrontarmi con l’intenzione originaria e la sua logica, più che sull’identificazione di seme, albero, pasta o lievito.

Anzitutto, c’è evidentemente la logica di un contrasto in queste parabole (il grande e il piccolo) che è anche un contrasto che ha abitato tutta la vita di Gesù: da un lato la pretesa di quanto affermava (l’universale della salvezza, il suo rapporto con Dio) e dall’altro la semplicità o povertà del suo agire (si parla oggi in esegesi di “un ebreo marginale”: non ha toccato grandi città…)
Così anche lo stile di questa predicazione: Gesù parla del Regno e dice del seme dell’orto sotto casa. Ci si aspettava i cedri del libano (è la citazione) e invece c’è la “massaia che fa il pane”. La massaia che fa il pane! Nessuno ha mai usato queste immagini per dire del Regno. Come se io parlassi della partita di Basket o della vacanza in Montagna…

Allora l’intenzione non è di capire cosa sia la pianta o il seme (potrà essere sia la Chiesa, sia me stesso, sia la mia azione sociale) ma un modo di abitare questo semino, questo “oggi” limitato, questo stile marginale, che non sia una mancanza, che non sia una cosa che muore, ma che ricalchi la stessa pretesa o la stessa speranza.
Perché tra gli uomini c’è la grande obiezione di Nietzsche e dei ragazzi: Tu dici il Regno e io vedo i poveri… è che non sei capace! Tu dici “i soldi non fanno la felicità”… è che non ne hai! Tu dici che i calzoni non di marca sono uguali… è che non li hai provati!!
E’ la grande obiezione! Devi solo colmare una mancanza e sarai felice!

La parabola smaschera questa accusa: il Regno non è mai già “albero” perché tu possa imparare a vivere la mancanza (il mio essere nulla, la mia assenza) come desiderio. Detto con uno slogan: il Regno non è ciò che soddisfa i miei desideri, è il modo di vivere il mio essere desiderio. In questo senso è una tensione, è una forza.
In contrasto con tutti quelli che vogliono saziare (subito) tutti i nostri anche più piccoli capricci e desideri, è necessario tornare a quel poco di “senape” e “pasta acida” per scorgere il Vangelo, intravedendo in esso “tutto quello che serve” per essere Regno. Tornare a quell’ora con un amico, ad apparecchiare bene la tavola, a fermarsi mezzora in silenzio in una chiesa… senza la frustrazione che il Regno sia sempre solo altro da questo. Che la felicità sia sempre solo “dopo”.
Lo dice anche l’interpretazione antica di Ilario di Poitier che vede in quel chicco di senape Cristo stesso, ovvero, il chicco di grano che muore. Solo lì, solo a partire da Lui, si sconfigge il fantasma che vuole fare di tutto ciò che ancora non abbiamo una mortale mancanza.