VI domenica dopo Pentecoste

Link alle letture

Non è facile commentare il Vangelo di oggi perché si tratta di uno dei messaggi più importanti della predicazione di Gesù. Siamo al cuore incandescente dell’insegnamento nuovo di Gesù e posso limitarmi solo a due osservazioni.

1) Gesù non parla di una nuova legge civile rivolta a una convivenza irenica e idealistica tra popoli. Se applicassimo quanto dice questa pagina ai rapporti civili di una nazione uscirebbe un disastro: tutti saremmo indifesi e non potremmo salvarci dalla violenza e il sopruso. Sarebbe un vangelo idealista che non fa i conti con la realtà. E’ allora decisivo chiedersi: a chi si rivolge Gesù? Come questo messaggio è realisticamente applicabile?
Gesù non parla neanche di una mistificazione della sofferenza o della povertà. La povertà o la sofferenza rimangono realtà brutte per l’uomo. Basta andare vedere come vivono alcune persone senza casa o ai margini della povertà, non si può dire di loro “che bella vita!”. Il Vangelo non è un inno alla povertà, ma un riscatto dalla povertà. E’ l’annuncio della fine di una povertà, di qualcosa di più grande della miseria. E’ decisivo chiedersi: come questo si realizza? Come è possibile questo riscatto che promette beatitudine?
La risposta di Gesù è chiara: attraverso l’esperienza di una comunità. E’ il contesto della comunità che permette una convivenza e una umanità diversa. Significa vivere legami e relazioni capaci di questo: perdo il lavoro? avrò qualcuno che penserà per me e mi aiuterà; non posso fare le vacanze quest’anno? qualcuno certamente mi inviterà a casa sua; ho una malattia e sono nel pianto? qualcuno verrà a consolarmi. E’ l’esperienza della comunità, dove dai senza chiedere indietro, dove non reagisci se qualcuno si arrabbia con te, questo il luogo dove si realizzano queste beatitudine. Senza questa esperienza non si vive il Regno e tutto il messaggio di Gesù diventa o moralistico o idealistico. In altri termini: non è un inno alla povertà ma alla comunità.

2)  Ogni volta che si legge questa pagina non può non apparire difficile, non solo perché ci manca una comunità dove queste parole diventino esperienza umana e realizzabile, ma anche perché non ci fidiamo del tutto. Ho impressione infatti che ci inganniamo molto facilmente cercando sempre di risolvere la tensione o la “fame” che ci abita. Cerchiamo qualcosa che ci “sazi”, che risolva la nostra inquietudine, che possa renderci felici: sia la morosa, siano i figli, il conto in banca, il luogo delle vacanze… eppure onestamente tutto lascia sempre ancora affamati: “guai a voi che ora siete sazi perché avrete fame”.
Sembra la nostra condanna espressa simbolicamente nel AT dall’impossibilità di vedere il volto di Dio. Non possiamo risolvere questa inquietudine e Gesù sembra preoccupato che non ci inganniamo. Neanche il successo personale, il vari titoli “dott. ing. avv. “..  o le “lodi degli altri verso di noi” sono la questione importante del vivere. Sono stati lodati e incensati molti “falsi profeti” ammonisce il Signore.
Dentro la nostra fame e la nostra voglia di riscatto c’è qualcosa di più profondo e importante. Lo esprime bene la scena di un famoso romanzo: Moby Dick. Melville racconta la caccia alla balena bianca, simbolo del male nascosto sotto l’oceano apparentemente tranquillo della vita. Eppure la balena bianca non si lascia prendere, il male non si lascia definitivamente distruggere. Così, verso la fine del libro, il capitano della barca, Acab, è alla sera da solo sul pontile della sua barca. Vede il mare tranquillo e pensa alla sua sconfitta: non potrà arrivare alla sua vittoria, non raggiungerà la sua meta. Tuttavia, mosso dalla compassione, una lacrima cade in quel mare e Melville commenta: non c’è cosa più preziosa che il mare contenga di quella lacrima. La tensione che il vangelo produce dentro di noi è come questa preziosissima lacrima.