VI Domenica dopo Pentecoste

Es 33,18-34,10; Sal 76 (77); 1Cor 3,5-11; Lc 6,20-31

Vorrei riflettere oggi sulla dinamica dell’idolo perché mi sembra un buon filo conduttore di queste tre letture. Nella prima lettura abbiamo ascoltato l’intercessione di Mosè per il suo popolo dopo l’episodio del vitello d’oro. Così, i guai delle beatitudini di Luca (davvero una riscrittura di Amos) condannano gli uomini piegati dagli idoli e Paolo richiama il rischio di farci degli idoli tra la comunità. Dunque, cos’è un idolo?

Il punto di partenza per capire come funziona un idolo è capire questo: noi non possiamo rimanere vuoti ma per vivere abbiamo sempre bisogno di qualche tensione, di qualche desiderio, di qualche pensiero che ci occupi le giornate. Può essere il figlio, le vacanze, il lavoro, una ragazza… ma sempre per vivere dobbiamo essere pieni di qualcosa. Un artista contemporaneo aveva preso un ostensorio e aveva messo al posto del pane eucaristico una lattina della Coca Cola schiacciata. C’è un contenuto vero in quest’opera: qualcosa dobbiamo adorare, dobbiamo cercare per vivere. Il problema di tanti ragazzi è che non avendo nulla da fare si riempiono di cose che non valgono nulla e che non durano alla prova del tempo.

Capito questo possiamo capire cos’è un idolo. Un’idolo è un fantasma che occupa tutta la scena promettendoti di lasciarti finalmente sazio, riempito, vivo. E’ un pensiero che contiene la promessa di essere decisivo, risolutivo, vitale e lo fa uccidendo tutto il resto. Avete mai parlato con un ragazzino di prima o seconda media appassionato di calcio? Capireste cos’è un idolo, perché per lui si può parlare solo di calcio, non c’è più la scuola, gli amici … ma la scena è occupata solo dal calcio. E’ il calcio il problema… Poi, passato qualche anno, “è la ragazza il problema”… poi “è il lavoro il problema” poi…
L’idolo ti riempie facendoti credere che “questa” sia la cosa decisiva. L’idolo è un fantasma.

Avete mai letto “L’isola del tesoro” di R. Steavenson? Se leggete questo libro con attenzione capirete che il suo segreto è proprio di descrivere la dinamica dell’idolo. Il protagonista, il medico e il cavaliere avrebbero tutto perché hanno la mappa del tesoro, ma sono così presi dal loro idolo che perdono il contatto con la realtà e, lasciandosi sfuggire delle parole, non si accorgono di mettere sulla propria nave quei pirati che volevano tanto evitare! E’ una grande metafora.

Passati i 50 anni, l’idolo può anche essere una nostalgia: “ti ricordi come era bello quando c’era questo o quest’altro”, “quando l’oratorio era così…”. Si è così presi dalla nostalgia che non ci si accorge di quante cose belle il Signore fa fiorire sotto i nostri occhi. Oppure, si può avere l’idolo del figlio. Il figlio diventa così importante da inghiottire tutto, anche il rapporto di coppia, e così lo si schiaccia sotto il peso del nostro affetto…

Ma qual’è la promessa dell’idolo? La sua errata pretesa: la pretesa di saziare e di riempire, mentre noi rimaniamo sempre poveri e dipendenti l’uno dall’altro. Ecco il senso delle beatitudini e di questo “poveri” (“anavim”) che erano al tempo di Cristo quelli che continuavano ad attendere e ad essere dipendenti dalla comunità. Del resto, se uno vuol bene a qualcuno sa che la sua forma di amore o è una cosa opprimente o significa vivere una povertà: io dipendo da te.
Faccio due esempi su questo.

Fa impressione quanto il cammino della vita ci riporti a capire di dover essere “anavim”. Pensate agli anziani che hanno bisogno di tutto: di essere accuditi, vestiti, lavati, più dei bambini… non è questo anche un modo che ha il Signore di farci capire quando il nostro vero essere è sempre quelli di uomini “mendicanti”, di “anavim”?
Pensate all’oratorio estivo che abbiamo concluso: cosa ci rimane? A me rimane la convinzione che da sola una famiglia non ce la fa. Quando la scuola finisce il 15 giugno e hai due figli e lavori, da solo non ce la fai: hai bisogno di una comunità, di un legame. Hai bisogno di essere povero, “anavim”, sempre mendicante dagli altri e da Dio.