VI domenica dopo l’Epifania

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Qualche giorno fa sono caduto in moto su una lastra di ghiaccio. Non è successo nulla, se non un po’ di spavento. Tuttavia, mentre ero a terra e pensavo chi mi avrebbe aiutato a rialzare la moto, di domenica mattina in una via deserta, passa vicino a me un uomo di colore. Dall’aspetto non esattamente una persona raccomandabile, in cuor mio mi dico “sicuramente vorrà qualcosa”… e invece con grande gentilezza mi ha aiutato ad alzarmi e a risollevare la moto.

Mi scuso per il racconto banale, ma capiterà cento e poi altre cento volte oggigiorno che sarà uno straniero ad aiutarci. Quando qualche anno fa avevo organizzato di dire l’Angelus prima di iniziare la scuola, il primo giorno che cominciamo la preghiera alle otto, sotto i portici della scuola, non si presenta nessuno. Un po’ per la vergogna degli amici, un po’ perché bisogna alzarsi prima, un po’ perché ti devi ricordare… fatto sta che mi sono ritrovato da solo. Chi alla fine è venuto? Un ragazzo albanese ortodosso e poi una ragazza africana non cattolica.

Potrei fare ormai cento e cento esempi come questo: da un premio per il miglior tema di italiano vinto da un ragazzo straniero, alla ragazza islamica che è l’unica della sua classe di prima superiore (dove tutti sono battezzati e cresimati) a sapere chi è un “profeta”.

Detto in altri termini, c’è una verità di questo vangelo che penso incontreremo sempre di più prossimamente: la salvezza non viene dai tuoi. Però, vorrei ricordare una cosa importante: è anzitutto una verità amara! Chi ha aiutato Gesù a portare la croce? Non un discepolo, non uno degli amici, ma il cireneo, ovvero uno straniero di passaggio, e penso che questo abbia fatto male al cuore di Gesù non meno di una ulteriore caduta. Gesù ha voluto bene ai suoi e anche ai giudei (per quanto spesso il Vangelo ne parli male). I discepoli non erano Samaritani e alla samaritana ha detto chiaramente: “la salvezza viene dai Giudei”. E così –ai suoi– Gesù continuerà a voler bene fino alla fine. Ma saranno i pagani a salvare il messaggio di Gesù nei primi secoli, sarà un centurione romano a riconoscere per primo il Signore come Figlio di Dio.

Verità amara: la salvezza non viene dai tuoi. I tuoi che hai accudito e coccolato saranno spesso altrove nel momento del bisogno. I nostri figli che abbiamo viziato e spinto a Messa e premiato e rimpinzato… i nostri figli, ormai quasi tutti vediamo che vanno altrove: prendono altre strade, altri percorsi, altri credo… I nostri amici, sui quali puntavamo nel momento del bisogno, potrà accadere (molto spesso ahimè) che anch’essi ci deluderanno: faranno le loro famiglie, avranno le loro cose, talvolta neanche si accorgeranno del nostro disagio… Sarà invece uno straniero, magari solo di passaggio, a salvarci! Magari soltanto un’infermiere che è capace di darci quella parola giusta che ci serve. E’ doloroso in realtà accettare che sia chi “non è dei nostri” ad aiutarci. Perché ci aspettavamo che erano i nostri figli, i nostri amici, i nostri parenti… invece il Signore ci stupirà. Non è già così per i preti nella Chiesa? Non sono ormai i paesi straniere a dare più vocazioni di noi? Ci scandalizza questo, o c’è qualcosa del Vangelo che accade?

E’ accaduto così anche per la Sagrada Familia di Barcellona: i catalani ne volevano fare un museo e nessuno dava soldi per finirla, sono stati i cinesi e i giapponesi e gli americani ad accorgersi del genio di Gaudì e a far proseguire i lavori. Sicuramente, come è stato duro per Gesù accettare di essere tradito dai suoi e di essere accolto da fuori, così sarà anche per noi nel vedere che il Vangelo si realizza grazie alle persone che non ci aspettavamo, e non grazie “ai nostri figli”.

Non voglio però limitarmi a questa lettura, che potrebbe anche apparire ingenua o banale a qualcuno. In fondo, noi non siamo il Signore, ma al contrario ho impressione siamo un po’ come i dieci lebbrosi. Allo stesso modo della parabola dei seme gettato nei diversi terreni (sassoso, spinoso, buono…), possiamo immedesimarci tanto nei nove lebbrosi che non tornano a ringraziare quanto nel decimo che ritorna. Cosa intendo dire? Che c’è una sproporzione non solo nel mondo che viviamo, ovvero al di fuori di noi, ma anche in noi stessi tra il senso di una gratitudine per quanto ricevuto, un decimo, e i restanti nove decimi pieni di ingratitudine (la nostra memoria breve della riconoscenza).

Come dice San Paolo nella seconda lettura: dentro di noi è in atto sembra una battaglia, un conflitto tra il desiderio del bene e la capacità di attuarlo. Anche la vita spirituale è fatta spesso di un rapporto uno a nove, di una sproporzione tra ciò che riceviamo e ciò che possiamo restituire, tra ciò che desideriamo da noi e il bene che davvero facciamo. “Chi mi libererà?” si chiede alla fine San Paolo.