VI domenica dopo il Martirio del Precursore

Gb 1,13-21; Sal 16; 2Tm 2,6-15; Lc 17,7-10

La lettura del libro di Giobbe meriterebbe un lungo discorso a parte. Visto che siamo in una predica, vorrei solo fare un’osservazione importante, perché questo ritaglio di lettura rischia di dare un’immagine diversa da quella del libro. Giobbe non è l’uomo paziente che accetta tutto e rimanendo in silenzio. Al contrario, è il furibondo accusatore di Dio, fino a dire di rimanere “ossa e pelle” ma di non farsi andare bene ciò che gli accade (il dolore innocente). Fino ad accusare Dio e a chiamarlo in giudizio.
Una cosa, tuttavia, deve essere mantenuta – ed è un altro aspetto che non c’entra con il dolore innocente di Giobbe: “amare Dio per nulla” (Come dice P. Ricoeur). In questo stà una sfida anche per Giobbe.
Diceva S. Agostino: godere non per le cose belle, ma per ciò che fa belle le cose. Cogliere al di là del dono, la grazia del donatore. Pensate a questa festa: non essere contenti per il cibo buono, ma per ciò che rende buono questo cibo e questa compagnia. Godere non per l’amico simpatico, ma per quel legame in forza del quale questi amici mi sono diventati anche simpatici.
Questa è una delle grandi sfide del cristianesimo. Cogliere la forza che trasforma i semini in alberi, direbbe Gesù. Perché è qui il vangelo e la felicità degli uomini. Non nell’albero già bello, ma nella forza che ha trasformato il semino in albero. Non nell’uomo che vede e cammina, ma nel miracolo che mi fa camminare e mi fa tornare a vedere. Il Regno è questa forza trasformatrice. “Amare Dio per nulla”, come dovrà imparare Giobbe è anche questo: cogliere il donatore al di là del dono.

Il Vangelo che abbiamo ascoltato deve essere collocato dentro la domanda “cosa significa credere?”. In particolare, “cosa significa credere per chi ha una responsabilità nella comunità?, per gli apostoli che già erano stati mandati in missione. Subito prima, infatti, i discepoli fanno a Gesù la domanda “aumenta la nostra fede”.
Il tema è dunque quello della fede, per chi fa parte della comunità. Fede, per chi ha una responsabilità, sembrerebbe “fare ciò che si deve fare”, non per un riscontro, non per un merito, “amare Dio per nulla” – si diceva – fare ciò che si deve fare per nulla. Non per vedere quanti siamo.
Dico spesso ai ragazzi. L’oratorio deve essere il luogo dove si può fare di tutto purchè lo si faccia per nulla. Cioé,
non per “abitudine” – “sono cresciuto qui”,
non perché ho la mia cricca di amici e “non so dove andare” e “allora sono qui” (c’è il bar per questo)
non per un interesse particolare – sono qui per il corso di calcio (c’è la sportiva per questo)…
L’oratorio è il luogo dove si può fare di tutto purché lo si faccia per nulla. Si coltivino amicizie purché non siano per un motivo forte, finalizzate a una utilità.
E il prete – aggiungo – deve essere autorizzato (compito difficile) a fare anche casino quando vede che in una comunità ciò che ci tiene insieme è diventato un motivo più forte di questo “per nulla”. Dove gli interessi di alcuni, dove l’abitudine di alcuni, prevale su questa idea di gratuità. Non perché piace al prete, perché è scritto qui.

Allora mi immagino un bambino che oggi pomeriggio vede fare tutto questo lavoro dai ragazzi più grandi e può domandarsi (come di fronte al servo del vangelo), ma perché questo lo fa?
Non lo fa per soldi, non lo fa perchè qualcuno gli dice “grazie”, non lo fa perché non ha null’altro da fare… non è che lo faccia anche per Dio.
Questa è la logica dei servi del vangelo. Fuori da questo, c’è solo il mondo che invece fa tutto perché gli interessa qualcosa. E non fa nulla se non ha un riscontro per qualcosa (di soldi, di fama, di abitudine…). Ma noi siamo da un’altra parte. Il Vangelo ce lo ricorda.