VI Domenica dopo il martirio del Precursore

Gb 1,13-21; Sal 16; 2Tm 2,6-15; Lc 17,7-10

C’è una certa ambiguità nelle letture di oggi che vorrei mettere in luce. “Siamo servi inutili” recita il Vangelo di Luca, ma al tempo stesso ci ricordiamo quando Gesù disse “non vi chiamo più servi, ma amici perché vi ho fatto conoscere ogni cosa…”. Siamo dunque servi o amici? Fa una certa differenza nella relazione con Dio!
Ancora più ambigua la prima lettura, che è un frammento di un libro complesso. Abbiamo ascoltato: “il Signore ha dato e il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore”. Certo, ma c’è anche una bella differenza tra quando il Signore dà e quando toglie! Come può essere uguale quando le cose vanno bene e quando accadono delle disgrazie?

L’ambiguità sull’immagine di Dio appare davvero spaventosa quando prendiamo queste frasi per affermare la grandezza di Dio. Che Dio si riveli necessario quando sperimentiamo la fragilità di noi stessi e della vita, il nostro essere polvere e cenere, è un fatto tanto naturale quanto ancora religiosamente ambiguo. Che non siamo padroni della vita (neanche padroni di casa nostra e basta sposarsi per capirlo), questo è un dato evidente. Ma che Dio si riveli necessario quanto più noi siamo poveri, fragili e impotenti potrebbe anche suggerire un’idea un po’ sadica di Dio.
È molto lontana l’immagine di un Dio che muore per te e per i suoi, andando a offrirsi lui, da quella di un Dio che è tanto più forte quanto tu percepisci il tue essere inutile, fragile e magari anche meschino.

Io leggerei il Vangelo di oggi in modo differente. Non come accento sulla povertà dell’agire dell’uomo (che tanto muore) per affermare la grandezza di Dio da cui invece tutta la vita dipenderebbe, ma come indicazione sull’uomo stesso e sulla modalità dei suoi affetti, delle sue relazioni, del suo voler bene, affinché esso sia vero e simile a quello di Dio.

Questo è il tema della pagina. Se vuoi vivere autenticamente stai attento a non cambiare la gratuità del tuo affetto in un diritto, in una recriminazione. La vita nella sua bellezza è fatta dalla coscienza di questa gratuità di cui siamo partecipi e debitori. Insomma: tutto ci fu dato per amore. Se ce lo dimentichiamo ogni cosa diventa un diritto e perdiamo quella radice della bellezza.
Laddove, in una società, a questa visione cristiana della vita si sostituisce un bilanciamento di diritti e doveri (dove poi son sempre i diritti a prevalere) tutto si “impianta” e la vita resta grigia. Lo si vede nel mondo del lavoro: dove all’idea della gratitudine e della relazione tra maestro e allievo si è sostituito un contratto che tuteli diritti e doveri delle parti… tutto si è bloccato in una infinità di cavilli e recriminazioni reciproche, dimenticando che era la relazione gratuita all’origine.

Nella gratuità che la coscienza percepisce, l’uomo intravede anche la destinazione del suo amare, del suo “dare” per gli altri. Essa non è fine a sé stessa e al suo mantenimento, ma deve morire. La mamma deve educare i figli –e sarà spinta a farlo– ma dovrà farlo per poi non educare più. L’amore dono (che grazie al cielo esiste) ha come fine la sua stessa scomparsa e non il suo mantenersi infinitamente in vita. Altrimenti, nell’esempio, i bambini non diventeranno mai adulti. Altrimenti avremo amato noi stessi e il nostro eroismo o il nostro ruolo più che veramente il bene dei nostri figli — e sarebbe un tragico inganno.

C.S. Lewis ne parlava in un bellissimo libro dal titolo “I quatto amori”. Scrive parlando del vero affetto: “è un compito ingrato quello dell’amore-dono, esso deve operare in vista della propria abdicazione (l’esperienza degli anziani che si sentono inutili e si devono riappacificare con la loro inutilità). Dobbiamo mirare a renderci superflui. Il momento in cui potremo dire “non hanno più bisogno di me” dovrebbe anche essere il momento della nostra ricompensa”.