VI domenica dopo il martirio

Link alle letture

Mi viene in mente quel foglietto che Martin Lutero aveva lasciato sul suo scrittoio poche ore prima di morire: “Siamo mendicanti. Siamo mendicanti, ecco la verità”.

Questa verità fa eco al testo del Vangelo, come alla scoperta di Giobbe: rimaniamo “semplici servi”, così sarebbe meglio tradurre l’aggettivo greco “acreios”. Il servo che ha lavorato tutta la giornata non è inutile al suo padrone. Così la nonna o il nonno che hanno messo al mondo figli, con fatica, non sono inutili  –il mondo è andato avanti anche grazie a loro. Sanno che ora non possono più fare nulla e devono “lasciare andare” ciò per il quale si erano tanto spesi. Non sono loro i padroni di ciò per il quale hanno faticato, come non lo erano per le tante cose che hanno loro stessi ricevuto. Noi adulti, malgrado lamentiamo sempre una prossima “fine del mondo”, dobbiamo invece rasserenarci al fatto che il mondo andrà avanti anche senza di noi. Non siamo i padroni, ma “semplici servi” o, come diceva Lutero, “mendicanti”.

E’ vero che questa affermazione potrebbe essere ambigua o male interpretata. Sono tuttavia convinto che sappiamo benissimo sciogliere ogni confusione. Come possiamo facilmente capire che questa frase di Gesù non toglie nulla all’altra che dice: “non vi ho chiamato servi ma amici…” Non si tratta infatti di umiliare qualcuno, di farlo sentire un semplice subalterno. La questione non è se si è “servi” o “amici”, ma al più come intendere l’umiltà che è necessaria nella vita per non crederci falsamente “padroni”. Come vivere la nostra povertà senza vergogna. Potremmo vivere male questo “non essere padroni”, neanche di noi stessi, potrebbe farci paura. Eppure, sappiamo bene che l’umiltà non è una svalutazione di sé stessi, ma significa riconoscere la necessità di un legame. L’umiltà è la virtù delle relazioni, di chi ha a cuore le relazioni perché può dire senza vergogna: da solo non ce la faccio. E’ bellissimo poter dire al Signore o ai nostri amici: “da solo non ce la faccio” e poterlo fare senza vergogna.
Anche l’esperienza dello studio è una esperienza di umiltà: si può studiare per sentirsi bravi, per diventare dottori, per avere un lavoro… va bene, ma non si è ancora capito nulla dello studio e alla fine si chinerà il capo sui libro solo per paura (paura degli esami o paura del futuro). Poi, finito il “dovere” si rimarrà lontani dallo studio. Invece, quando si impara cosa è lo studio, si capisce che ha a che fare con un “aver bisogno di capire”, “aver bisogno di un libro”… cioè con il riconoscerci poveri o mendicanti. Insomma, come diceva Socrate: “si sa di non sapere”. Poveri e ricchi al tempo stesso.

Il quadro di Icaro di Bruegel ricorda che il personaggio del mito si bruciò le ali nel credersi padrone senza limiti dei suoi sogni. Oggi siamo affetti da una strana ansia di prestazioni: oscilliamo tra la tristezza passiva che non ci farebbe fare nulla (a casa sul divano) e la preoccupazione di raggiungere risultati sempre migliori. Dobbiamo sempre dare il massimo, dobbiamo puntare ai risultati migliori, dobbiamo realizzare i nostri obbiettivi. Oppure, viceversa, siamo svuotati e non sappiamo cosa fare o cosa vogliamo. La logica del marketing ci spinge a dover essere “i migliori”, salvo che ogni tanto cadiamo in acqua come Icaro. L’ansia da prestazione è ciò che attanaglia i giovani e anche se i genitori si sforzano di dire ai loro figli che “non pretendono nulla”, sono loro stessi a torturarsi perché non si sentono all’altezza di quello che a volte “troppo amore” gli ha fatto pretendere. Non fare l’università o sposare un semplice impiegato con la panda… sembra non essere il massimo rispetto all’ideale di uomo o di donna che ci hanno imposto. Sembra che uno che si accontenta di “non essere Dio” non possa mai essere felice. Mi chiedo: tutta quest’ansia da prestazioni non sarà anche un po’ come il calore che brucia le ali di Icaro?

Le cose più belle della vita ci ricordano che non tutto possiamo costruire o modellare noi stessi. Non abbiamo scelto noi la famiglia dove siamo nati, il nostro corpo (anche se ora ci accaniamo a cambiarlo), la ragazza della quale ci siamo innamorati e non scegliamo noi neanche il dolore che a volte ci raggiunge… ahimé (certo: ahimé! come poi urlerà Giobbe). Per questo però abbiamo bisogno degli altri: di amici che ci sostengano quando stiamo male, di una donna che non ci faccia sentire così brutti o di un Dio che non ci faccia sentire così abbandonati…
Io trovo utile questo esercizio: chiedermi alla sera chi ho incontrato davvero oltre me stesso. Non chi ho “visto”, ma chi ho “incontrato”: chi si è rivelato a me senza che io sia stato il protagonista, ma vedendo “l’altro” che avevo di fronte. Ci si riscopre umili servi e ricchi al tempo stesso, senza dover portare sempre il peso del mondo intero.