VI domenica di Pasqua

At 4,8-14; Sal 117; 1Cor 2,12-16; Gv 14,25-29

Vorrei partire dal tema della paura che mi pare contenuto in questo Vangelo. Anche se viviamo in una società che non ci fa mancare nulla per la nostra sussistenza, nel senso che non dobbiamo lottare per la sopravvivenza come accade nei paesi del terzo mondo, tuttavia, non per questo, viviamo privi di paure o di ansie. Al contrario, l’ansia e la paura sono qualcosa che sentiamo molto forte. La paura della scuola, la paura di perdere il lavoro, la paura per il futuro dei figli, per una ragazza, per il futuro di un matrimonio, per la riuscita di qualcosa… Sembrerebbe che non riusciamo a liberarcene mai, neanche per noi uomini di fede.

Cosa significa allora questo “dono della pace”, “dello Spirito del Signore”?
Io non penso che “credere” significhi non sentire più ansie o paure. Non penso sia vero, come afferma qualcuno, che “si crede per non avere paura”. Se la pace che riceviamo è la “pace del Signore” e non la “pace del mondo” dobbiamo guardare alla vita di Gesù. Gesù ha più volte sentito e patito per gli altri e si è persino arrabbiato. La fede non produce un volto irenico che non ci fa sentire cosa accade nel mondo. Al contrario: c’è della rabbia nella speranza cristiana. Proprio perché sento il male e il dolore di un altro, allora mi arrabbio. Questo l’ha fatto Gesù. Mentre la pace come semplice assenza di rabbia o di problemi, sarebbe la noia. In fondo, la pace che promette il mondo è quella che oggi chiamiamo “sicurezza”. La “sicurezza” è la falsa promessa che per proteggerti ti isola e ti allontana dagli altri.

In questo senso –osservava il sociologo Zygmunt Bauman– è interessante come oggi si parli di “rischi” e non più di “pericoli”. I “pericoli” si differenziano dai “rischi” perché possono essere localizzati, fronteggiati o almeno contrastati, sono esterni alle relazioni dell’uomo. I “rischi” invece invadono tutto, sono un tratto caratteristico di ogni azione e relazione, non li si possono sconfiggere mai del tutto.
Se il “rischio” contamina in modo imprescindibile ogni relazione, a differenza del “pericolo” che può essere visto e combattuto in sé, l’unica strada per non sentire il “rischio” è allora di isolarsi, di non giocarsi, di non coinvolgersi… “La pace del mondo”, ovvero la sicurezza, non è combattere dei pericoli, ma prevenire dei rischi isolandosi.

Invece, cosa osservo se guardo quello che sta accadendo in questo vangelo? C’è un uomo che sta per morire di morte violenta, negli anni ha radunato attorno a se un gruppo di discepoli che l’hanno seguito, ma che sembra non comprendere quasi nulla. Per questo uomo, il fallimento umano rispetto a ciò che in quel momento della storia si può vedere sembra totale: non solo per la morte di Gesù ma sopratutto per l’incomprensione dei discepoli. Eppure, questo uomo sa che ciò che non può vedere non è semplicemente inesistente. Crede ci sia altro (oltre e dopo) a custodire il buono della storia che ha passato con loro. In altri termini, crede che i “pericoli” che conosce non siano più importanti delle relazioni che ha vissuto. Verrebbe da chiedersi: se in tre anni questi discepoli non ti hanno capito, cosa puoi credere che accada ancora?
Del resto, chi di noi, quando guarda un figlio adolescente ormai perso riesce a pensare che c’è altro che lui non sa nella storia di quel figlio? Che non è andato perduto il bene che abbiamo fatto per loro?

La pace del Signore è ciò che permette di non ridurre gli altri a quello che io vedo di loro. Patire per loro e con loro, ma senza avvicinarli troppo, senza ridurli a “ciò che vorrei io”, all’opera delle mie mani. Se riduco la mia vita alla realizzazione dei miei ideali, se riduco gli altri a quello che vorrei che loro fossero –in altri termini se non credo in un terzo protagonista della storia, in uno Spirito– la paura si trasforma in rabbia distruttiva o in catene paralizzanti, in vuoto depressivo. Mi paralizzo quando ho paura del giudizio su di me, ho paura del mio fallimento, del non essere riuscito a far combaciare i miei sogni con la realtà. Mi sento definitivamente condannato perché non vedo altro. Non credo più nella lotta tra l’uomo “spirituale” e l’uomo “carnale”, perché vedo solo la sconfitta.

Mi ha sempre colpito la testimonianza del killer di don Pino Puglisi, Salvatore Grigoli. Racconta che quando gli rubarono il borsello sotto la porta di casa, dicendo, “padre, questa è una rapina”, lui rispose sorridendo: “me l’aspettavo”. Chi può sorridere davanti ai propri sicari? Non certo uno che non ha patito per gli altri o non si è dato da fare per loro. Penso un uomo che –come Gesù– sa vedere oltre l’apparente fallimento della sua morte e del dramma di non vedere realizzato il proprio ideale. Così, dopo la morte di don Pino e dopo dopo 46 omicidi per conto della mafia, Salvatore Grigoli si costituì allo Stato, proprio per quel sorriso .