V Domenica dopo Pentecoste

Gen 17,1b-16; Sal 104; Rm 4,3-12; Gv 12,35-50

Cerchiamo di entrare nel senso di queste letture.
Mi preme ricordare che la prima lettura non ha come centro e significato l’episodio della circoncisione. Lo ricorda anche Paolo che ne da una interpretazione: il punto non è la circoncisione (quel segno esteriore della carne che sembrerebbe rendere diversi) ma il paradosso di una promessa che diventa per Abramo una scommessa così grande da cambiargli il nome, cioè da modificare quello che è davvero.
Quale promessa paradossale? Quella di avere una discendenza malgrado l’età e di avere una terra malgrado sia un nomade.
E Paolo ricorda, agli Ebrei ma anche a noi: il Vangelo, come la Fede cristiana, cominciano qui o non cominciano affatto. La giustificazione (il perdono) cominciano in questa sfida e non dopo “nel segno” che siamo tutti circoncisi.
Dico sempre ai ragazzi: il Vangelo non è il “buon senso”. Anche se la vita secondo il Vangelo è -alla fine- “più buona” delle altre, il vangelo non è la vita secondo il “buon” senso.
Non c’è buon senso al mondo che suggerisca di lasciar lì la famiglia, lasciar perdere il lavoro, ed entrare in un monastero… eppure è il gesto cristiano più alto.
A differenza di quello che si sente, io penso che non ci sia “buon senso” al mondo che suggerisca a un uomo di non lasciare lì da sola una donna anche se non è più innamorato di lei. Diceva Gaber nella canzone “il dilemma”….
Non c’è buon senso che tenga che faccia fare ai ragazzi, finalmente liberi dalla scuola, la sudata che stanno facendo per prendersi cura dei piccoli del quartiere.
Non c’è buon senso al mondo che insegni a lasciar perdere il tempo che hai o non hai perché se ti trovi di fronte uno che ha bisogno sei in grado di saltare la cena per dargli una mano.

Ma Perché lo fanno? Perché Abramo credeva in quello che faceva, fuori da ogni “buon senso”?
Il Vangelo dice due cose su questa domanda.
Primo che, proprio perché non si tratta di “buon senso”, o uno ha fatto quella esperienza e capisce, oppure è come un uomo cieco e duro di cuore, e non c’è modo di spiegarglielo. Quante volte con amarezza noi grandi abbiamo sperimentato questo fallimento perché ci dimenticavamo di questa parola: o uno ha incontrato il Signore perché ha fatto la stessa esperienza fuori dal “buon senso” e ha capito (ha capito perché poi ha approfondito la coscienza di quella esperienza)… oppure non c’è spiegazione che tenga, potrà leggere il vangelo 100 volte, ma non accade un bel nulla. Invece S. Teresina aveva un frammentino di Vangelo nel taschino, da piccola glielo avevano raccontato anche male, non aveva mai potuto leggerlo tutto, ma sapeva benissimo cosa stava dicendo quando aveva modo di vederne qualche frase.

La seconda cosa che dice il Vangelo mi sembra questa. Quando ci chiediamo davvero perché facciamo questo — perché contro il “buon senso” Abramo crede in questa promessa, perché contro “la carne” un prete crede in una paternità… — dobbiamo chiederci cos’è per noi la consistenza della nostra vita. In cosa io ho riposto la mia consistenza del vivere? Se uno pone la consistenza del vivere sui soldi dell’azienda o sul successo della sua famiglia, se crolla quello crolla tutto.
Se uno l’aveva posta nei figli e poi gli esce uno che si non capisce nulla… gli crolla tutto.
Se un ragazzo ha posta la consistenza della sua vita nel successo scolastico e alla maturità gli va male, gli crolla tutto. Allora dobbiamo chiederci in cosa abbiamo posto la “consistenza della nostra vita”. E se ce lo chiediamo allora capiamo davvero quanto siamo fragili, perché non sapremmo cosa ha davvero la consistenza di reggere la vita, anche se la scuola va male o la famiglia va male.

Io penso che questa consistenza uno non se la dia da solo, non la trovi come trova una delle tante cose della vita. Questa consistenza è quello che Gesù dice quando dice “io sono venuto al mondo come luce”. E’ l’abito nuziale che dicevamo la volta scorsa: cioè, se uno approfondisce il fatto che io ci sono perché c’è stato uno sguardo che mi ha voluto bene, e approfondisce cos’è questo sguardo nella sua vita (e cosa è stato davvero) e perché lo desidera “sempre”, allora capisce che questo, quanto l’ha ricevuto, è l’unica cosa che è in grado di reggere la fatica o la crisi della vita. Se uno scopre da dove arriva davvero questo sguardo e questi gesti che nella vita lo hanno salvato, allora uno si trova di fronte a riporre la sua fiducia, la consistenza del suo vivere, in quell’unica cosa in grado di reggere l’impatto con la vita, che è il Signore Gesù.