V domenica dopo l’Epifania

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Se conosciamo il Vangelo non dovrebbe stupirci l’apparente durezza di Gesù davanti al funzionario di Erode che chiede la guarigione del figlio: «Se non vedete segni e prodigi, voi non credete» dice. Ricorre tante volte questa durezza di Gesù -o persino un apparente rifiuto- e non possiamo crede che ciò sia casuale. Quando una cosa diviene un tratto distintivo, significa che quella cosa contiene un suo messaggio e non accade solo per alcune circostanze determinate. Ricordate le nozze di Cana? Gesù verso Maria che dice con durezza: “che vuoi da me donna?”. Oppure, davanti alle richieste della donna Cananea risponde: «Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini».

Così, in molti altri episodi Gesù sembra essere resistente nel fare ciò che gli chiedono e questo non può essere una cosa casuale. Io credo che questa resistenza di Gesù metta sempre in luce un aspetto della vita di chi fa la richiesta, è come se contenesse questa frase: «ma davvero ci credi?» Tant’è vero che laddove manca questa fede, non accade nulla: quando Gesù torna a Nazareth, l’evangelista Marco sottolinea che “a causa della loro incredulità non poté fare molti miracoli”. Come se non ci fossero miracoli che servono a farti credere (del resto si possono sempre dare altre spiegazioni). Al contrario perché un miracolo avvenga è necessaria una fede e Gesù provoca questa fede, come dovesse nascere dentro alle persone un azzardo, un rischio.

La fede come azzardo, come rischio. Come dire: “mi prenderanno per pazzo ma io ci credo!”
Per molti andò così: la donna che perdeva sangue sapeva che avrebbe rischiato molto ad andare a toccare il mantello di Gesù, perché era una donna impura, ma lei dice: “qui c’è in gioco un bene che vale questo rischio”. È come se la fiducia verso un bene debba emergere per tutto ciò che è, con tutta la sua forza, senza “se” e senza “ma”. La fede è sempre solo un rischio, un azzardo del cuore, altrimenti si chiamo “opportunismo” oppure è una forma di conformazione al pensiero comune, ma non contiene nulla di me stesso, non c’è la mia vera libertà. I ragazzi lo capiscono subito: quando amano una donna sono disposti a rischiare qualcosa per lei e solo prendendosi un rischio (magari la paura del “chissà cosa pensano gli altri”) che loro scoprono questo stesso amore. Così la fede: solo se messa nella prova diventa vera e si distingue da una semplice tradizione.

Una seconda osservazione. Sembra che in questo Vangelo ci siano due modi diversi di credere. C’è un “credere nella parola di Gesù”, dice il testo: “Quell’uomo credette alla parola che Gesù gli aveva detto e si mise in cammino” e poi c’è un secondo credo, alla fine del testo, quando si accorge che proprio nell’ora che Gesù gli aveva parlato il figlio era guarito: “riconobbe che proprio a quell’ora Gesù gli aveva detto: «Tuo figlio vive», e credette lui con tutta la sua famiglia”.

È una distinzione interessante. Si può credere alla parola di Gesù, ma non ancora a Gesù. Accade molto spesso: molte persone credono nel Vangelo, credono nel messaggio e nel cuore del Vangelo, ma non sanno cosa significhi credere in Gesù, hanno un idea vaga di Gesù. Si dice: credono nei valori cristiani senza essere cristiani. Allora, come accade che si diventa davvero Cristiani? Dice questo testo: quando si mette in collegamento ciò che ci è capitato con Gesù stesso; ciò che quel credo nella Parola ha prodotto o ha causato e Gesù stesso. Possiamo credere nell’insegnamento di Gesù e seguirlo, ma fintanto che non colleghiamo ciò che accade attraverso quella parola a Lui, fintanto che la vita è dominata dal caso o dal solo prodotto delle nostre azioni, non siamo in grado di incontrare Cristo.
Ed è interessante che tutto questo avvenga “dopo del tempo”. Non avviene subito, avviene dopo o alla fine della storia. Alla fine si uniscono i puntini e si capisce, in modo personale e inconfutabile, che non è stato un caso, ma che era proprio Gesù.

Mi viene in mente la testimonianza di papà Giampiero, un padre che ha perso il figlio per droga, perché il figlio -che non era un drogato- è andato a una festa, ha preso una pasticca di droga perché viveva un brutto momento a causa della separazione dei genitori, e quella pasticca gli è stata fatale in quanto gli ha dato un istinto suicida che l’ha fatto buttare in un fiume. Quando papà Giampiero parla di questa storia, alla fine, ricorda quanti segnali “il Padreterno” gli aveva dato perché cambiasse vita, perché si ricordasse di fare il padre, ma non era in grado di leggerli perché era come accecato da alcuni falsi valori -se n’è accorto dopo. Ma alla fine, lui li ha visto tutti questi segnali e dice: “non erano un caso”.
E ancora, quando racconta la notte della morte del figlio, dice che lui che abitava in un’altra città e che non si sveglia mai la notte, “per caso” proprio quella notte –proprio quando ha scoperto essere morto il figlio– si è svegliato ed è andato in cucina a bere un bicchiere d’acqua e proprio in quel momento ha sentito il telefono vibrare: era la moglie che lo chiamava di venire urgentemente.

Era un caso? Potrebbe sempre esserlo, se non crediamo non sarà certo questo a cambiarci. Eppure, per chi alla fine riesce a ricollegare i puntini della vita, e non solo a credere nella parola di Gesù, è capace di dare senso alla sua vita e di dare un nome e un’esperienza personale all’incontro con Cristo.