V domenica dopo l’Epifania

Is 66,18b-22; Sal 32; Rm 4,13-17; Gv 4,46-54

Il tema comune a queste letture mi pare sia quello della fede. Paolo ne parla in rapporto alla legge, mentre il Vangelo in rapporto ai “segni e ai prodigi”. Provo a fare qualche riflessione su questo secondo aspetto.
Abbiamo di solito questa idea di fede: credere è aderire ad alcune verità. Di che tipo di adesione si tratta? Di solito, di natura intellettuale e soggettiva perché le verità proposte ci sembrano fatte così: “credere nell’eucaristia, credere in Gesù Figlio di Dio, credere nell’esistenza di Dio”… sembrano cose non totalmente evidenti e del resto si dice: “altrimenti non servirebbe credere”.
Però poi accade che a volte ci troviamo a dire frasi del tipo: “io non so se ho davvero ho fede…”, “ogni tanto dubito…”… pur sentendo che non stiamo facendo del male a qualcuno e che non siamo “più cattivi di prima”. Intendo dire: una mancanza di fede non ci appare come una mancanza di carità.

Penso che questo vangelo ci possa aiutare a fare chiarezza su questa strana cosa che chiamiamo “fede”. Anzitutto si percepisce la sua importanza “vitale”, la sua ricerca in relazione a un bisogno o a una mancanza: il funzionario aveva un figlio che stava per morire. Attenzione: non dico che sia soluzione a questo bisogno –è vero che il figlio si salva, ma è anche vero che non per forza il funzionario poteva attribuire questo a Gesù– tuttavia la ricerca della fede, la sua necessità, non sta nel campo delle cose “opzionali” della vita solo quando si percepisce un limite nostro. Si percepisce che la felicità della nostra vita non è in mano nostra. Bisogna essere onesti su questo: se ci inganniamo dicendo che noi siamo gli artefici della nostra felicità, la questione della fede non sarà mai una questione seria, perché io mi concepirò come sufficiente a me stesso. Ho bisogno della fede, della fiducia in qualcuno, solo quando inizio a capire che io non sono sufficiente a me stesso. Solo dentro un’amicizia capisco il valore del “fidarmi” o meno di un amico. Le nostre crisi di fede sono in realtà sinonimi della nostra falsa autonomia.

Questa ricerca di fede –che inizia dalla nostra dipendenza da “altro”– non è detto che arrivi alla fede in Gesù Cristo. Ma la domanda è: come è nata la fede del funzionario? Non è nata semplicemente dal prodigio. Anzitutto lui crede alla parola di Cristo prima che quel prodigio accada. Ma il testo dice che ha creduto totalmente solo dopo che si è fatto dire l’ora della guarigione del figlio e dopo aver visto che quell’ora coincideva con il momento della frase di Gesù. Detto in altri termini: per credere è necessario andare in profondità a ciò che ci accade e leggerlo capendone un disegno, un legame. I fatti singolarmente non portano alla fede ma sono muti. I fatti portano alla fede quando li capiamo, ovvero quando riusciamo a collegarli. E spesso riusciamo a collegarli e a capirne il senso solo a posteriori.

Faccio un esempio nel quale mi sono imbattuto di recente. Mi è capitato di vedere un’intervista fatta al fondatore di Apple, Steve Jobs. Era, che io sappia, l’unico discorso che ha fatto a dei ragazzi, dei neo laureati di Stanford. La cosa che mi ha impressionato di questo discorso è che, da manager di una grande azienda, Steve Jobs non fa un discorso economico o manageriale o tecnico… ma un discorso che direi di natura spirituale. Racconta come lui, che stava vivendo una pesante malattia, ha vissuto alcuni momenti della sua vita. E la prima “storia” che racconta di sé la intitola: “unire i puntini“. Unire i punti è significato, per lui, capire che lasciare l’università, frequentare un corso di tipografia… non sarebbero state cose inutili, ma dopo dieci anni “tutto è venuto buono”. Ma dice: qual’è il problema? Che si possono unire i puntini solo alla fine e anche alla fine per farlo occorre saper leggere una storia.

Ecco, io direi che la fede, almeno per me, ha a che fare anzitutto con questi momenti: i momenti nei quali so unire i “puntini” della mia vita, come quel funzionario che è andato a vedere se l’ora era esattamente la stessa. Si potrà sempre dire che sono coincidenze e si potrà sempre cercare di “non voler unire” i nostri puntini. Forse perché una volta uniti si capisce un disegno e quindi anche una responsabilità, un legame, un impegno. E di nuovo bisogna accettare di non essere “da soli”. Però quando capiamo che onestamente è così, quando sappiamo di non aver forzato nulla della realtà e sopratutto che quel disegno ci ha salvato tante volte –o ci ha persino guarito il figlio– non sarà davvero uno sforzo cieco il nostro credere.