V domenica dopo il martirio

Dt 6,1-9; Sal 118; Rm 13,8-14a; Lc 10,25-37

Questo è uno di quei vangeli che non va banalizzato. Banalizzare sarebbe dire qualcosa di già noto e privo di fascino. Come fosse una storiellina per dire che dobbiamo impegnarci a volerci bene. Per aiutarci a non essere superficiali e rovinare quello che invece, secondo me, sentiamo come affascinante in questa parabola pongo l’attenzione su due questioni.

La prima è la questione del vedere e dell’empatia. Non so se sapete che la parola “guardare” non ha a che fare con la vista ma con la “guardia” cioè con un “prendersi cura”. Ovvero, c’è una parola in italiano che sottolinea il fatto che il nostro vedere non è mai un guardare neutro. C’è un vedere che si prende cura, c’è un vedere che è una voglia di possesso… Questo è un tema enorme che non posso sviluppare qui ma dico solo che è anche il tema su cui si poggia tutta la rappresentazione artistica. L’artista ti fa vedere ciò che rappresenta (una mela, una bottiglia…) in un “modo” diverso dal senso comune e questo noi lo percepiamo con stupore e poi magari diciamo “bello!”…

Questo atto di “vedere e prendersi” cura è, secondo me, ciò che rende umano l’uomo. Sono sicuro che ciò che ha affascinato di Cristo era anzitutto questo sguardo diverso e alternativo rispetto allo sguardo nostro che è sempre finalizzato a qualcosa o a un godimento. Forse l’esperienza amorosa è in grado di scardinare questo sguardo finalizzato a un godimento (il modo spontaneo e mondano di vedere le cose), almeno quando è un’autentica esperienza amorosa. Infatti, dico ai ragazzi, ti accorgi che sei innamorato non quando pensi a lei come pensi a un oggetto, anche a una cosa bella, ma in fondo come pensi a una Ferrari o al calcio o a una tua passione. Ma ti accorgi che sei innamorato quando, stando con lei e lei ti racconta i sui casini, tu senti un blocco allo stomaco e provi quello che prova lei… Quando fatto, questa con-passione, ti rende davvero un umano.

C’è poi un secondo punto ancora più interessante: che questo vedere “avendo compassione” (e poi intervenendo ecc.) è solo una possibilità libera dell’agire umano. Quello che nella storia ci sembra normale può anche non accadere. Anzi, non accade senza che tu lo voglia. E se entriamo nel racconto ci accorgiamo che si sono molte più possibilità o più circostanze che fanno sì che nessuno si fermi. Il sacerdote non si ferma non perché è cattivo, come a prima vista diremmo, ma perché ha tutte le sue buone ragione della purificazione e della contaminazione e così anche il levita. Cioè, se ben vediamo ci sono sempre delle “buone ragioni” che rendono quell’atto umano mai impossibile del tutto, eppure a un certo punto secondario o evitabile. Ma non è così nella vita? Non ci sono sempre buone o ottime ragioni per evitare il bene che pure potremmo fare…

Io penso che il peccato non è anzitutto il male che abbiamo fatto o il comando che abbiamo trasgredito. La questione del peccato ha invece a che fare per me anzitutto con il bene che potevo fare e che non ho fatto. “Era lì alla mia portata, e invece…” Peccato –si dice–, ma c’erano altre ragioni. Questo ha a che fare direttamente con il tema della libertà che non è tanto il “fare ciò che si vuole”, ma il poter fare ciò che si deve. E in questo senso l’uomo sa che è sempre libero, non perché può tutto, ma perché può percepire ciò che è giusto che faccia ora. Invece c’è sempre un ordinamento del mondo che ti porta a essere rapace, per esempio a non telefonare a quello, a tradire quell’altro… però, se siamo uomini, se siamo liberi nel senso che ho detto, capiamo che questo non è una ragione sufficiente e che non ci sono delle circostanze che davvero ci impediscono di essere uomini, di agire da uomini (e non per esempio secondo la logica delle bestie o dei consumatori…).
Si racconta che in un campo di concentramento dove i bambini stavano con le mamme, a un certo punto una mamma abbia detto a qualche figlio: “non si mangia con le mani!”. In un campo di concentramento “non si mangia con le mani”? Ma è questa umanità che teneva insieme il campo. Cioè, addirittura nella situazione più difficile nulla ci impedisce di non essere del tutto umani. Non c’è ragione sufficiente per il levita e per il sacerdote!

C’è un racconto magnifico di Joyce che si intitola “un caso pietoso” (anche se si trova anche con il titolo tradotto male “un fatto doloroso”, ma è un errore di traduzione) dove si dice tutto ciò. La storia di un uomo single Duffy che conosce a un pub una ragazza di nome Sinico e tra i due nasce una normale amicizia, si frequentano sempre alla stessa ora e iniziano a raccontarsi la loro vita. Quando un giorno la nel versare il the la signora Sinico accarezza la mano di Duffy che si irrigidisce e sospetta un grande malinteso. Così il sig. Duffy decide di troncare del tutto quella relazione e non vedere più la signora Sinico. Sparisce. Passano quattro anni quando il sig. Duffy legge un articolo di giornale dal tutolo proprio “un caso pietoso” dove si racconta la morte di una signora di nume Sinico che barcollante, perché aveva preso l’abitudine di bere, era stata investita da un treno. E l’articolo si chiude dicendo: nessuno è stato trovato responsabile di quella morte. E finito quell’articolo, mano a mano che il tempo passa il sig. Duffy si sgretola e capisce (qui Joyce è magnifico a descriverlo) che quella morte aveva a che fare con il suo abbandono con quel bene che si era rifiutato di fare. Era una faccenda sua e alla fine il lettore capisce che il “caso pietoso” e non la signora Sinico ma proprio il sig. Duffy.

Il bene che è alla nostra portata e che pure non facciamo (sempre per mille legittimi motivi) è ciò che rende la vita così complessa e bisogna anche per noi di salvezza. Tanto da far pensare i pittori della vetrata del buon Sammaritano di Chartres che, in fondo, il vero uomo da curare siamo noi e che il vero buon Samaritano è solo Cristo.