V domenica dopo il martirio

Is 56,1-7; Sal 118; Rm 15,2-7; Lc 6,27-38

Per capire questo vangelo e la prima lettura vorrei fare questa considerazione. Mi pare che noi tendiamo spontaneamente a far coincidere il compimento di un uomo, la sua realizzazione con una forma di soddisfazione o di successo personale. Se pensiamo ai ragazzi da adulti li vorremmo ben realizzati, con magari una bella famiglia, con un buon lavoro… vorremmo che potessero trarre soddisfazione dalla propria posizione, dai propri figli. Nulla di male, ovviamente, eppure in questo si insinua la convinzione che il compimento dell’umano sia sempre una forma di autorealizzazione. In questo senso: se uno ha una bella famiglia, magari non è divorziato, ha tanti figli, sta bene nel lavoro… allora è felice, è a posto. Se invece uno non trova la ragazza, magari fa fatica a studiare, nel lavoro non trova grandi sbocchi… allora “poverino”, è stato “sfortunato”.

A me sembra che il vangelo di oggi e la prima lettura abbiano qualcosa da dire proprio su questo modo di pensare. Isaia dice: “non dica lo straniero (l’immigrato potremmo tradurre noi) “sarò fuori” o l’eunuco (quello che non può avere figli) “sono come un albero secco”. Se lo straniero osserverà la legge del Signore e ugualmente l’eunuco, dice: “darò un monumento e un nome” che saranno qualcosa di meglio dei figli e saranno qualcosa di eterno… Come a dire: la questione non è che non possono avere figli, la questione è la relazione che hanno con Dio e allora io li riscatterò…
E’ interessante che un “monumento e un nome” sia stato poi scelto come titolo del museo ebraico della Shoà a Gerusalemme. Proprio in questo versetto di Isaia è stato riconosciuta l’opera della memoria che riscatta i sei milioni di ebrei morti. Sono morti, eppure, hanno un monumento e un nome (yahd washem)…

Gesù non dice una cosa diversa. La perfezione dell’uomo non è di fare carriera. La perfezione dell’uomo è di essere come il padre celeste che fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Questo realizza la pienezza della propria vita più che la soddisfazione famigliare o professionale. Anche se è difficile da credere.

In conclusione vorrei portare due esempi che sono stati così. Il primo è uno dei più grandi matematici di fine seicento Leibnitz. Se non fosse esistito non avremmo la matematica di oggi, fu addirittura uno dei primi ideatori di una calcolatrice meccanica. Eppure Leibnitz ha fatto per tutta la vita il semplice bibliotecario. Non ha mai avuto una cattedra, non ha mai potuto insegnare… non ha mai avuto successo. Nella sua etica quotidiana, fatta di dedizione alla studio, di fatica, di “amore per il nemico” che è anche ciò che non capisci… immagino abbia trovato tutto quello che gli serviva per vivere. E così, rimane nella storia anche se lui non se lo sarebbe neanche immaginato (perché non lo andava a cercare).
Il secondo grande personaggio che mi viene in mente, per sfatare l’idea che la grandezza dell’uomo sia legata al suo successo, è la vita del pittore Van Gogh. Non ha mai venduto un quadro nella sua vita, solo il fratello, mosso a compassione gliene comprò uno. Ma sappiamo dalla sue lettere che il suo modo di dipingere era il modo che aveva per parlare di Dio e di Gesù nel mondo. Fu un cristiano con i colori… ha sviluppato una poetica del mondo e delle cose che ha cambiato poi tutta la pittura. Non ebbe alcun successo, fu un “albero secco” per citare Isaia… eppure il Padreterno gli ha dato un “monumento e un nome” che rimangono nella storia.