V domenica di Pasqua

At 10,1-5.24.34-36.44-48a; Sal 65; Fil 2,12-16; Gv 14,21-24

Proviamo a prendere sul serio la domanda di Giuda: “come è accaduto che devi manifestarti a noi e non al mondo?”.
E’ una domanda che ci facciamo molte volte e in tante forme diverse: “perché proprio io?”, “perché io credo e i miei figli no?”, “perché proprio io ho fatto questi incontri e altri amici no?” ecc. Nel film “Jesus Christ Superstar”, poco prima la crocifissione, Giuda iscariota domanda al suo maestro: “perché non sei nato al tempo della comunicazione di massa in modo da raggiungere tutti?”.

Sono domande che vanno prese sul serio, ma che vanno anche capite. Spesso esprimono il disagio o la frustrazione nel non vedere quello che noi vorremmo vedere realizzarsi nelle persone alle quali vogliamo bene. Vorremmo che anche i nostri figli o i nostri amici facessero la stessa esperienza di fede che abbiamo fatto noi… e invece questo non accade. Vorremmo l’oratorio come ai nostri tempi… e invece questo non accade. Pensiamo che le esperienze belle della nostra adolescenza debbano essere le stesse per i nostri figli. Invece, meno male che questo non accade!
Dietro questo rispecchiamento c’è anche molto rimpianto della nostra età giovanile (“come era bello quando…”) e questo non aiuta né loro né noi. E’ un rimpianto malefico, un vero cancro, perché fa pensare ai ragazzi che crescere sia brutto e che la fede non sia una cosa fatta per la vita da adulti.

Di fondo, abbiamo l’idea che l’essere cristiani coincida con il rispecchiare un certo modellino di vita: “andare a Messa alla domenica, sposarsi con dei figli, trovare un buon lavoro, andare in Oratorio, essere buoni e generosi”… Tutto questo è buono, ma resta un modellino astratto che non dice nulla sull’esperienza reale dell’incontro con Dio nella vita fatta di sbavature, di difetti e di imprevedibilità! Chi la ragazza non la trova? Chi vive un fallimento? Chi non riesce ad avere figli? Chi –magari giustamente– non fa il buonista? Chi non si trova a giocare a pallone in oratorio? Chi, in sintesi, non è vicino a quella forma della vita “giusta” della quale ci siamo fatti uno schemino semplificato?

Invece, abbiamo ascoltato: “Dio non fa differenze di persona” e la prima lettura ci raccontava di uno Spirito che è già sceso (facendo i suoi percorsi) su persone inaspettate e senza bisogno neanche del battesimo, tanto che Pietro si chiede se valga la pena battezzarli oppure no.
Allora, la vita felice non è quella che rispecchia un modello. Purtroppo, molti ragazzi pensano così rovinandosi la vita: “ci sono io da un lato e dall’altro c’è l’ideale di me (che è l’aspettativa dei genitori)”. “Sarò felice quando sarò quel modello di uomo che mi avete detto essere bello, intelligente e magari che ha gli addominali così o il naso così…”. Questo è quello che si dice tante volte ai ragazzi: sarai felice non quando sarai tu, ma quando sarai uguale a come ti dico io che bisogna essere. Senza accorgersi che invece la vita felice è solo quella che è unicamente tua e così anche il corpo migliore è solo quello che è unicamente il tuo.
Mi diceva un ragazzo: non faccio questa università perché ci sono altri più bravi di me e sarei un infelice. Gli ho risposto: ma sempre c’è qualcuno più bravo di te, il punto invece è essere pienamente te stesso. Il problema del narcisismo oggi nasce proprio da questo sdoppiamento per cui la verità non ha più a che fare con la mia unicità e singolarità di uomo fatto in un certo modo. In altre parole, si tratta di scoprire che si è belli non perché corrispondenti alla dittatura dei corpi perfetti, ma proprio nella unicità delle nostre imperfezioni. La bellezza e la verità sono il compimento della nostra unicità e non una omologazione.

Mi sembra allora significativo che Giovanni descriva l’incontro con Dio non come un “copiare” (finalmente sono arrivato ad essere un cristiano facendo così oppure, sono arrivato ad essere bello perché così…), ma come un amare, come un “essere abitati”. Chi viene ospitato significa che rispetta pienamente la singolarità della casa che va ad abitare. Significa che la modalità dell’incontro non impone nulla alla propria vita, ma valorizza la nostra peculiarità e forse anche i nostri difetti. Chi ama non rinuncia a nulla della sua identità, ma anzi la scopre nel pieno della sua forza.

Quello che è successo a noi non deve ricapitare uguale ai nostri figli affinché essi credano in Dio. Essi sono diversi da noi e se Dio abiterà il loro cuore dovranno per forza vivere esperienze diverse. Arrivare alla consapevolezza che ognuno avrà il suo personale punto di incontro con il Signore –quando noi non sappiamo– significa far cadere quella frustrazione che risuona nella domanda “perché noi e non il mondo?” e scoprire pian piano che “Dio non fa differenza di persona”.