V Domenica di Pasqua

At 4,32-37; Sal 132; 1Cor 12,31-13,8a; Gv 13,31b-35

Siamo nel contesto dell’ultima cena. Gesù compie il gesto di lavare i piedi ai discepoli quindi, dice il Vangelo, ha un momento di “commozione” (forse non è la parola più adeguata) e dichiara che, nonostante quanto egli abbia fatto, qualcuno è pronto a tradirlo. Segue allora la domanda di Giovanni su chi sia questo traditore, domanda suggerita da Pietro al “discepolo amato” che reclina il capo verso Gesù per parlargli, in una scena di grande intimità. Gesù allora decide di compie verso Giuda un gesto estremo, che non vale solo come risposta alla domanda dei discepoli, intingendo insieme a lui il boccone nel cibo e dicendogli “quello che devi fare fallo subito”. Giuda esce ma nessuno comprende cosa sia accaduto per davvero e cosa accadrà. L’evangelista chiude con un lapidario: “era notte”.
Allora Gesù dice quanto questo Vangelo riporta nella sua prima parte e che senza questo antefatto non si può comprende: “ora il figlio dell’uomo è stato glorificato”. Questo “ora” è la notte che viene, è il tradimento, è la Croce. Ci si riferisce infatti al compimento della sua vita e a quello che da questo momento in avanti non può più non accadere: la morte in Croce. E’ in questo contesto di tradimento, ma anche di intimità con i suoi che Gesù consegna del “comandamento” nuovo.

Dobbiamo per forza fermarci su questo comandamento, anche perché è evidentemente il filo comune che unisce tutte le tre letture. La parola comune suona nella lingua originale come “agape”. E’ stata tradotta nella seconda lettura con “carità” mentre nel Vangelo si è preferito tradurre con “amore”, ma è sempre la stessa parola. E’ evidentemente anche il “cuore solo e l’anima sola di colore che sono venuti alla fede”, come la descrive la prima lettura.

Quello che vorrei mettere in luce in questo commento è una semplice osservazione. Gesù lega questa parola alla sua vicenda (“come io ha amato voi…”). “Agape” non è una effetto generico (“philia” o “eros” che sia), ma l’affetto che ha saputo avere lui, quello che si manifesta pienamente nell’ora. Anche la prima lettura lega questo “agape” a Gesù, dice infatti il testo: “coloro che erano diventati credenti…”. E l’inno ai Filippesi è ancora più stringenti: lega infatti l’agape a un decalogo di aggettivi che rimandano tutti alla storia di Israele e a Dio: “è benevolo” viene detto nel Salmo 9 di Dio, “non è geloso” ricorda Isaia al capitolo 11, “non si adira” è una citazione di “lento all’ira e ricco di misericordia” di Esodo 34 ecc. ecc.

Per le letture di oggi c’è un legame imprescindibile tra la parola “amore” e l’opera di Dio o la storia di Gesù. La mia domanda allora è questa: esiste anche per noi questo legame? Detto in modo semplice: siamo capaci di parlare di “amore” o di “agape” senza parlare di Dio, senza riferirci a Gesù, senza riferirci alla fede? E quando questo accada cosa succede a noi uomini?

Evidentemente siamo capaci. Si parla continuamente di “amore” senza aver bisogno di evocare Dio. Parliamo ai nostri figli di cosa sono le “relazioni affettive”, le “amicizie”, “la fedeltà”… senza che di Dio si faccia minimamente cenno. Senza sentirne neanche il bisogno. Senza che si dica: hai in mente Gesù quando dice… La verità è che non ci viene neanche in mente che non si possa parlare di “amore”, di “cuore” senza parlare di Gesù Cristo. Eppure qui si dice: “la moltitudine di coloro che erano venuti alla fede…”.

Tra le due parole “amore” e “Dio”, la prima sembra essere sempre in voga, mentre la seconda è molto più in crisi. E’ rimasto un “amore” senza Dio. E’ rimasto il comanda dell’amore, ma non più quell’amore (agape) di Gesù, basta un “amore in sé”, un sentimento dell’amore. Del resto, sembrerebbe che il sentimento dell’amore sia molto più evidente di Gesù Cristo.

La fede è diventata un fatto privato e personale, mentre l’amore è il metro di giudizio della realtà. Come se la parola fosse un fatto in sé evidente, come se fosse un universale da tutti distinguibile. Per esempio, per legittimare le adozioni omosessuali si chiede oggi: “non possono voler bene a un figlio anche due persone dello stesso sesso?”… ecco: è l’amore assunto come universale incondizionato della giustizia. Non invece che anche l’amore per essere distinto richieda una norma, un comando o una giustizia.

Peccato che “amore” , tolto dalla parola Dio, tolto dalla storia di Gesù, sia davvero tutto e nulla assieme. Come definirlo al di fuori dell’arbitrarietà del soggetto e della “variabilità” dei sentimenti? Oggi lo provo, domani non lo provo più… l’amore da fatto universale tende a coincidere con il capriccio del soggetto.

Ecco allora la mia tesi, che chiede di essere verificata e approfondita da ciascuno di voi: l’amore, tolto dal suo riferimento a Gesù Cristo (dai suoi gesti, dal suo comando e quindi da una obbedienza) o tolto da una fede, diventa sempre, alla fine, amore di sé e come ogni amore di sé porta inevitabilmente alla morte (conoscete la storia di Narciso?).

Faccio un esempio. I ragazzi che seguono il sentimento d’amore come unica bussola della loro vita al di fuori dell’obbedienza all’amore di Gesù, al di fuori di una relazione con lui, al di fuori di una fede o di una giustizia, ma seguendo appunto loro stessi, possono anche apparire molto legati, molto affettuosi e molto felici. Possono anche fare gratuitamente molto per l’altro e spendersi generosamente. Possono davvero apparire soddisfatti. Ma non è assolutamente detto che amino davvero qualcun altro, al di fuori di loro stessi.

Questo significa che uno non può voler bene sinceramente all’altro, non può avere “agape” senza riferirsi a Gesù Cristo? Sì, il Vangelo direbbe: senza lo Spirito di Gesù non si ama veramente il fratello. Chi ha lo Spirito di Gesù non lo decidiamo noi e non è necessariamente chi viene a Messa, ma certamente lo possiamo riconoscere dalla sua somiglianza allo Spirito che ha mosso Gesù fino alla sua “ora”. Altrimenti non ama davvero. Ma ecco: lo possiamo distinguere!
Non sarà un caso che la società di oggi così atea sia anche così sola tanto che ciascuno di noi si sente davvero circondato da estranei. Non è un caso che ancora chi cerca di mettere in comune anche i soldi, chi si addentra nella strada di avere un cuore solo e un’anima sola, si chiami “comunità” e lo faccia ancorato e motivato dalla fede. Sarà un caso che le esperienze delle “comuni” senza Dio siano durate meno di dieci anni e che la parola “comune” slegata dalla parola Dio e legata a un “-ismo” (comunismo) abbia prodotto un’utopia con migliaia di poveri e di vittime?

Questo significa che gli amici, gli amanti, gli sposi, devono imparare sempre il legame tra la qualità delle loro relazioni e la vicenda di Gesù Cristo. Si devono domandare sempre e molto: quanto è simile il mio amore a quello che ha avuto Gesù? Cosa c’entra questo mio desiderio con la promessa di Dio e con la sua fedeltà? Fuori da questa strada si seguono gli idoli dell’amore che sempre ci ingannano e ci lasciano soli o, per dirla con Paolo, ci lasciano come vuoti, come cembali tintinnati.