Ultima domenica dopo l’Epifania

Os 1,9a;2,7a.b-10; Sal 102; Rm 8,1-4; Lc 15,11-32

Il senso ultimo di questa parabola, letta nel suo contesto, è che nessuno si può considerare mai definitivamente perduto. Non esiste una situazione definitiva della vita che crei una distanza tale da non permettere un ritorno, una conversione. Nessun peccato allontana definitivamente da Dio. Come dice Osea: si può tornare come quando si amava da giovani –“risponderà come nei giorni della sua giovinezza…”—e la vita non è così definitivamente amara e cinica da non avere una strada di ritorno o di perdono.
Vorrei fare alcune osservazioni su questo. Anzitutto che il male non è tanto visto come un semplice “peccato” che si è commesso, ma più globalmente come un “allontanamento”, come un “perdersi” generale nella vita. Si può non trasgredire alcun comandamento –non “fare del male a nessuno” come si dice di solito– eppure ugualmente accorgersi che ci si è persi. Per esempio, ci si può sentire soli, abbandonati, incapaci di voler bene a qualcuno… Non è una singola azione, è tutto un contesto, è “il cuore” a essere lontano dalla pace.
Semplificando, mi pare che il vangelo tracci due strade di questo perdersi: vivere secondo il principio del proprio piacere e vivere secondo il principio del proprio dovere. Sono le due strade opposte dei due fratelli che hanno entrambi un momento dove maturano la loro sofferenza: nella fame del fratello uscito di casa che non ha più nulla da mangiare e nell’invidia dell’altro fratello che si sente anch’esso privato di qualcosa. Entrambe le strade sono strade che portano a “perdersi”, ovvero, non tanto a “peccare”, quanto a perdere il centro e l’orientamento vero della nostra vita, a vivere per sé stessi.
Seguire il “principio del proprio piacere” è come un rincorrere il vento e quando tutto ciò che ci dava piacere finisce veniamo sempre miseramente scartati. Come accade a Pinocchio che viene gettato in mare perché dopo essere stato nel mondo dei balocchi, diventato asino e sfruttato, poi finisce a non servire più a nulla. Se ognuno segue il principio del proprio piacere il mondo è un posto di lupi affamanti… e accade così a tutti quelli che confidavano nel successo lavorativo, nelle gratificazioni famigliari o affettive: accade sempre che qualcosa prima o poi vada storto e loro si sentono “buttati via” dal sistema o da qualcuno. Sarà quello il momento dove si potrà “ritornare in sé stessi”, ribaltare la logica per la quale si era vissuti.
Ma anche il principio del dovere “perdere” l’uomo. Tutta la vita si era trasformata in un grigio servilismo, come ormai rassegnati costretti in schiavitù. Sono quegli uomini che ti dicono: “cosa vuole don, ormai ho questa moglie, ormai ho questo lavoro… lo sopportiamo”. Vado a vanti solo perché devo andare avanti, ma privo di motivazioni, senza la gioia per quanto possiedo, senza vedere la ricchezza che si è ricevuta, senza mai rendere “grazie”. La vita grigia è rassegnata è ugualmente una vita persa.
Entrambe queste forme hanno come punto comune una riduzione degli altri: gli altri sono gli oggetti del mio piacere oppure gli altri sono coloro che mi tolgono ciò che è mio. Il Padre non ragiona così. Come nel quadro di Rembrand ha gli occhi consumati dal pianto, ma non si è “perso” perché non ha smesso di desiderare il ritorno del figlio. E’ un uomo sofferente, ma è un uomo vivo. Non si è alienato e neanche rassegnato, ha continuato ad amare.

Viviamo in un tempo bastardo che consuma tutto e tutto rende effimero o grigio; a volte anche gli amori e gli affetti più profondi e intimi vengo divorati o si sfilacciano dando vita a sofferenze inaudite. Fino a perdere anche la speranza di un vero ritorno, di una vera possibilità di bellezza, di uscita dal proprio ripiegamento. La sfida più difficile è quella di esperienze che ci diano la speranza di poter “tornare in noi stessi”. L’esperienza archetipa è come un’Itaca alla quale si desidera tornare, come la casa del Padre o come un abbraccio vero che non possiamo rassegnarci di non cercare.