Tutti i Santi

Ap 7,2-4.9-14; Sal 88; Rm 8,28-39; Mt 5,1-12a

Provo a dare tre possibili letture del Vangelo e una mia personale considerazione. Come sempre cerchiamo di leggere la parola non in modo piatto, ma in una pluralità di sguardi e in una storia di interpretazioni.

1) Le beatitudini come luoghi paradossali di uno stato speciale di Grazia. Pensando in particolare alle prime quattro, ci vengono in mente categorie anche sociali di persone (in Israele erano detti gli “anawim”) o casi speciali di uomini. Per esempio, interpretando “povero in spirito” come povero reale, non solo materiale, oppure come bisognoso, oppure come “atteggiamento interiore” di mendicante (nella vita). Capita proprio solo ai miseri e agli umiliati che viene conferita una promessa, per i quali la parola “salvezza” è una domanda viva, è una speranza vera.
Qual’è il limite di questa lettura? Di spiritualizzare troppo facilmente la povertà o la sofferenza. Le beatitudini non dicono: beata la povertà. Questo non c’è scritto. Parlano invece sempre di un uomo e di un modo di vivere una mancanza: beato l’uomo che… Pensare a “categorie di uomini” magicamente beati rischia di far prendere la povertà per beatitudine.
Quel’è invece il lato bello di questa lettura? il lato paradossale della grazia, il fatto che la beatitudine non è un possesso ma un dono. Se cerchi di possedere la felicità o di assicurartela, la perdi perché la felicità è sempre un dono: tanto più grande quanto più ne sei mendicante. Diceva Barth: “le beatitudini indicano tutte la stessa opposizione tra quelli che sono giusti da soli e quelli per i quali si dà giustizia solo in virtù della grazia.”

2) Una seconda lettura pone invece l’accento sul versante etico o sul carattere esortativo. E’ come se le beatitudini tracciassero per la nostra vita un percorso graduale di virtù. Le prime trattano del distacco dell’uomo da una dipendenza terrena, poi ci sono quelle del rapporto con i suoi simili (p.e. l’essere misericordiosi), infine come rapporto con Dio (i perseguitati per il Regno). E’ come se il testo dicesse all’ascoltatore continuamente: “ma tu sei così?”, “ti rispecchi in un uomo affamato e assetato di giustizia?”. Come un nuovo decalogo.
Qual’è il limite di questa lettura? di fare troppo del singolo soggetto il protagonista della sua salvezza. Come se, rispettando una “nuova legge”, io ne avessi in cambio qualcosa. Il punto è che le beatitudini non sono un nuovo decalogo perché non sono una legge dettata ai singoli. Quelle frasi non sono l’equivalente di una ricetta, come dire: se vuoi la beatitudine ti dico come fare.
Qual’è il lato bello? che è vero che una verità, quando viene scoperta, è sempre un appello e mi mette in moto. Non accade che solo mi affascina e mi incanta (come una fiaba) ma mi “provoca” e mi chiede qualcosa.

3) Una terza lettura è davvero interessante. Non importa se la beatitudine è il luogo di un patire paradossale (prima lettura) o di un agire etico nuovo (seconda lettura), quello che importa è invece la compagnia di Gesù, ovvero il fatto che nascano dalla sua sequela. In questo senso le beatitudini sono semplicemente la forma della vita della comunità. Perché con Gesù la comunità ha perso tutto e con Gesù la comunità ritrova tutto.
Pensate al lasciare di chi entra in un monastero benedettino di tutto quello che ha a casa, pensate a quanto in una comunità non scelta di monaci, o in una famiglia con dei figli che non ci si sceglie (!), uno per vivere la relazione con Cristo e la sua sequela sia continuamente chiamato a lasciare per ricevere a un livello nuovo (lasciare la sua rabbia, la sua voglia di vendetta…). Pensate anche a voi che siete venuti a Messa e avete “lasciato” le vostre occupazioni o riposi o hobbit per ricevere qui una ricchezza a un livello diverso.
Cos’è bello di questa lettura? Che fa della comunità e di un cammino di sequela il vero soggetto della beatitudine, non più un generico povero troppo facilmente mistificato.

*) La mia considerazione. Quello che c’è in gioco è una dinamica del desiderio (l’identità dell’uomo come “essere dipendente”, “come apparato lacunale” ecc.) e la fiducia in qualcosa o qualcuno che sostenga la vita (oltre la frustrazione del desiderio).
E’ come se risuonasse questa domanda: “tu di chi ti fidi nella vita?”, “su cosa o su chi poni la tua fiducia che domani sarai beato/felice?” Sulla tua capacità o fortuna di realizzarti? Sulla tua autonomia? Sulla quantità di studio o sull’azzeccare l’università giusta? Sul conto in banca pronto a tutelarti nella vita? Sugli amici che speri non ti tradiscano? Sulla moglie o sui figli che speri non ti abbandoni?
La sequela del Signore inizia, direbbe questo Vangelo e anche la seconda lettura, quando cominci a fidarti di Lui da non avere paura di essere povero, da non avere timore davanti a nessuno di non avere potere, di non avere che lo sguardo di Dio. La sequela comincia quando rimette al centro questo come vero sostegno della vita.