Tutti i Santi

Ap 7,2-4.9-14; Sal 88; Rm 8,28-39; Mt 5,1-12a

Il testo delle beatitudine che abbiamo letto è l’introduzione al grande discorso della montagna di Matteo. Esso contiene quelle famose pagine che negano la violenza (“porgi l’altra guancia”, “se ti chiedono la tunica tu dai anche il mantello”), e si conclude con l’immagine della casa sulla roccia che non crolla alle intemperie. Sono forse, tra tutte le pagine del vangelo, quelle più note e più commentate circa il contenuto dell’insegnamento di Cristo. Faccio ora solo due considerazioni.

Le Beatitudini, o meglio “macarismi” (makaros = beato, felice), era un genere o modo di parlare religioso già ben noto al tempo di Gesù. Per esempio, il primo salmo del salterio inizia proprio allo stesso modo: “beato l’uomo che non siede in compagnia degli stolti…”. In questo Gesù non inventa qualcosa di nuovo, ma riprende questo modo di parlare che è un invito sapienziale a riflettere sulla felicità. E’ come se questa forma implicasse la domanda: chi sono gli uomini felici? “Felici sono gli uomini…”.
Dunque, per capire questo testo dobbiamo tornare alla domanda: chi sono gli uomini felici?

Mi vengono in mente due possibili risposte che mi sembrano frequenti nel modo di pensare attuale e che sono all’opposto della provocazione del Vangelo. Sono espresse in modo molto eloquente in due film di Woody Allen. Nel primo film, dal titolo “Basta che funzioni”, nelle ultime battute il protagonista si rivolge alla platea del cinema durante una festa di fine anno e dice: “qualunque felicità riusciate a rubacchiare o a procurare; qualunque temporanea elargizione di grazia……Basta che Funzioni…!”. Ovvero, detto altrimenti, la felicità non è questione di una vita giusta, ma di una temporanea serenità, rubacchiata qui o là e in qualsiasi modo (non importa come).
Nel secondo film, dal titolo “Match point”, la scena iniziale si concentra su una pallina da tennis che tocca il nastro della rete ed è in bilico tra cadere da una parte o dall’altra del campo. Una voce fuoricampo commenta: la felicità è questione di fortuna. Gli uomini faticano a dirsi quanto sia la fortuna a determinare la loro felicità.

Sono due modi molto comuni di pensare alla felicità, ma in entrambi i casi sembra che questo tema non sia questione della libertà o dell’etica. Per il Vangelo invece, la felicità dell’uomo è questione di una libertà e di una scelta (la scelta del Regno). La felicità è la possibilità che abbiamo in qualsiasi circostanza, pure nel pianto, di rispondere “da uomini” alle circostanze che pure non abbiamo scelto. Rispondere da uomini alle circostanze che non abbiamo scelto della nostra vita e non farlo invece da “lupi”, “da pavidi”, “da sfiduciati”… Ogni beatitudine, tranne la prima e l’ultima, contiene infatti espressioni al futuro e sono segno di un compito affidato ai discepoli: consolare, dividere la terra, operare giustizia ecc.

Ma come si fa a essere felici nel pianto, nella povertà, nella sottomissione? Il dato paradossale del discorso della Montagna ha diviso molti. Uno scrittore come Lev Tolstoj lo considerava il centro stesso della vita, mentre un altro scrittore, Solzenicyn, raccontando l’esperienza dei Gulag in Russia, afferma che il discorso è bello dove si sta bene c’è la pace, ma dove le cose sono diverse, come nei Gulag, bisogna rispondere con la violenza alla violenza: altro che beati i perseguitati!

Tutto ciò è da prendere sul serio e penso che queste beatitudini, se prese sul serio, dividano. Tuttavia, non dobbiamo cadere in un equivoco: queste pagine non contengono indicazioni perché tu sia felice. Non si tratta di un moralismo se tu sei capace di applicare queste pagine e quelle che seguono, se tu sei capace di porgere o meno l’altra guancia… Non dicono che, se tu singolo uomo sei perseguitato o povero o nel pianto allora sei felice.

Queste pagine non sono rivolte ai singoli ma a un gruppo preciso di persone: i discepoli. Questo cambia totalmente il discorso: la felicità non è il tuo essere in pianto o affamato di giustizia, ma il vivere concretamente una forma di amicizia, una comunità, dove tu possa dire: anche se sarò nel pianto posso contare sul fatto che qui verrò consolato, anche se sarò povero posso contare sul fatto che qualcuno mi darà quello che serve, e se sarò affamato di giustizia qualcuno qui mi ascolta. E se sarò senza tunica, qualcuno qui mi darà anche il suo mantello. In altre parole, qui Gesù dice: voi discepoli siete pronti a vivere tra voi una esperienza diversa delle relazioni? Esiste un luogo dove questo può essere vissuto? C’è un contesto dove è possibile non preoccuparsi del denaro perché i abbiamo amicizie tali da poter contare sul nostro aiuto fraterno? Esiste un contesto così? Se esiste questa dovrebbe essere un pezzetto di Chiesa.
Penso che un ragazzo che fa l’università, anche se angosciato dall’esito dei suoi esami o dal futuro che lo attende, così pieno di incognite, possa essere felice se ha una compagnia di persone che sono per lui affidabili, sulle quali sa di poter contare nella vita e può così appoggiare il bene della sua vita non a una fortuna ma alla stabilità di alcune relazione, compresa quella con Dio! Lette così le beatitudine sono una questione estremamente concreta.

Purtroppo noi viviamo una religiosità individualista e allora questo vangelo o sembra impossibile e utopico oppure moralistico. Perché è come se fosse privo di quel contesto che invece lo rende vero. Ma la domanda sulla felicità non è per il vangelo una questione dei singoli, ma una forma della relazioni che viviamo.
Che la chiesa non sia più il luogo dove le Beatitudini diventano una esperienza possibile, perché la religiosità è vissuta come pura scelta personale… questo è un altro discorso. Ci resti almeno la provocazione! In ogni caso, se perdiamo le Beatitudini, la pagina subito dopo del Vangelo ci ricorda che saremmo come il sale che perde ogni sapore.