Terza domenica di Pasqua

At 16, 22-34; Sal 97; Col 1, 24-29; Gv 14, 1-11a

In queste domeniche stiamo riflettendo su cosa sia il nostro incontro con il Risorto o — meglio — l’esperienza (globale) dell’incontro con il Risorto.
Domenica scorsa dicevamo che questa esperienza può coincide, come per Tommaso, con il poter mettere la propria mano in una ferita senza restare per sempre schiacciati da una colpa. Se non si è incontrato Cristo, ogni ferita rischia di legarci a una colpa più o meno indelebile. Perché non c’è nulla, tra le cose che incontro, che valga di più del mio errore, che valga la vita comunque.

Oggi il Vangelo ci propone un’altra forma dell’esperienza dell’incontro con il Risorto che direi così: chi incontra Cristo nella vita fa esperienza di una certezza. Chi incontra Cristo sa — è sicuro nel senso che c’è un modo vero di sapere che è proprio un sapere e non una fantasia — che ha incontrato una certezza del vivere.

Questo mi sembra anzitutto la grande pretesa di Gesù in tutto il suo Vangelo. Lui non dice: chi vede me vede la storia di un “uomo buono” o di un saggio “rabbino del tempo”… Ma dice: chi vede me vede Dio, vede l’unica certezza per la quale la vita valga la pena di essere vissuta. L’unica certezza per la quale la vita può resistere alla tentazione di dire: “ma in fondo cos’è tutto quanto abbiamo fatto e detto?”, “in fondo non rimane che un nulla”, “siamo qui provvisori”. Resistere a questa tentazione perché si ha incontrato una certezza.

Approfondiamo questo punto con una osservazione dal Vangelo di oggi.

“Da tutto questo tempo sto con voi, e non mi conosci ancora, tu, Filippo?”.La sensazione perenne, di Filippo come anche nostra, che manchi sempre qualcosa alla nostra esperienza cristiana. Anche con i migliori propositi si dice: “se fossi migliore”, “se avessi più fede”… eternamente alla ricerca di qualcosa che sazi definitivamente il nostro desiderio. E invece Gesù dice: se pensi sempre che la tua felicità sia altrove perdi la qualità del tempo che stai vivendo. Ecco perché ogni cristiano deve imparare a dire ogni sera: “ora lascia Signore che il tuo servo vada in pace perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza”.
Se uno non è capace di dire oggi “in questo sguardo”, “in questo” io ho colto la tua pretesa e ho visto la tua salvezza (che io non sono niente e che questo sguardo se è buono è destinato a non morire) tutto si perde, tutto vola via, nulla ci basta.
I ragazzi passano insoddisfatti da una esperienza forte all’altra perché noi adulti non sappiamo dare un “peso di salvezza” al nostro oggi.

Permettete un esempio. Commentavamo con i ragazzi la canzone di De André il Testamento di Tito. Tito è il ladrone che mure insieme a Gesù. E De André se la prende contro tutti i comandamenti, gli sembrano tutti ingiusti… ma poi alla fine, sulla cosa importante, che è la questione della vita o della morte, cioè per cosa ho vissuto e sto vivendo, lui dice “io mi commuovo” e capisco che c’è solo spazio per una fede che chiama “pietà senza rabbia” — la “pietà che non cede al rancore”, e quella è la sua salvezza. E davvero in tutta la canzone gli basta quello sguardo lì rubato all’ultimo, ma di questo sa dire — sono convinto che è l’unico che sorregge la mia esistenza, altrimenti sono perduto: “ma adesso che viene la sera ed il buio, mi toglie il dolore dagli occhi”.

Serve appunto credere in una destinazione buona (che nulla finisce in nulla), che c’è un posto per noi, e l’incontro con il Risorto è quell’esperienza dove si trova questa certezza, cioè che questa speranza è fondata e non è una illusione. Anche perché, quando la si trova, essa è davvero quell’unica certezza che corrisponde davvero alla profondità del nostro desiderio.