Solennità di Cristo Re

Is 49,1-7; Sal 21; Fil 2,5-11; Lc 23,36-43

Quando Pio XI istituì questa festa nel 1925, voleva reagire al dilagare del laicismo che cercava di scalzare il ruolo di Dio e della Chiesa nella vita moderna.
Questo è anche il nostro punto di partenza. Viviamo in una contesto culturale che fa volentieri a meno di Dio, e lo fa anche facendo a meno della Chiesa o dichiarando la sua non necessità e il suo relativismo. Per tutte le esperienza e le parole che traducono il vivere non è più necessario in nessun modo parlare di Dio. Questo non lo vediamo solo perché incontriamo interi popoli laicizzati o di altre religioni, ma è un dato che costatiamo a casa nostra. Provate a spiegare a un giovane serio che il matrimonio non si fa in chiesa per i fiori ma davanti a Dio: è tutt’altro scontato che capisca. Si nasce, si muore, si va a scuola, si fa cultura, ci si ammala, ci si innamora… e per parlare di tutte queste esperienze non è affatto necessario parlare anche di Dio. In america persino le agenzie di lutto hanno reso la sepoltura una questione più di business che di religione.

Qualcuno (Bonhoeffer), non aveva subito visto male questa cosa. Al contrario aveva chiamato questo punto di vista “l’essere adulto del mondo”. In questo senso: il mondo non è più come un bambino che dipende dai genitori, ovvero da un trascendente di fronte alle cose che non controlla, ma è come un adulto che conosce i sui limiti e sa governare sé stesso.
Qualcuno potrà chiedersi: ma può l’uomo rimanere adulto così oppure si distruggerà da solo? Ce la fa l’uomo a stare senza Dio oppure genera culture necessariamente violente, prive di un’etica veramente umana, dunque che gli si ritorcerà contro?

Non rispondo direttamente a questa domanda, perché mi sembrerebbe così di dimostrare una ideologia. Riprendo invece un’immagine di Isaia che dice: “è troppo poco che tu sia mio servo… io ti renderò luce delle nazioni”. Mi verrebbe da dire: è troppo poco rendere Dio necessario. Nessuno si è mai convertito perché Dio gli era necessario. Io mi sono convertito perché ho sentito uno sguardo vero su di me come non era mai stato. Perché ho incontrato qualcuno che mi ha detto una verità di me che io sapevo che non avrei sentito da nessun’altra parte. Quando si incontra questo è davvero “troppo poco essere servi di un Dio perché non si domina tutto nella vita o perché si ha paura”. Dio non è necessario, ma il Dio-incontrato, lo sguardo di Gesù che uno dice “qui qualcuno mi sta dicendo l’unica verità che io stesso non volevo vedere”, quello è più che necessario. Faccio un esempio per rendere più chiaro: l’amicizia non è necessaria per vivere (si può vivere da orsi tranquillamente), ma il “pierino” mio amico è ben più che necessario (dopo che l’ho incontrato) perché questa vita non sia un inferno. Così con il Dio di Gesù.

Paradossale regalità questa che accetta di essere messa da parta pur di non essere “mal sopportata”. Da questo punto di vista il mondo laico mi fa molto meno paura di un mondo bigotto o falsamente cristiano, diceva E. Hillesum.

Facciamo un passo ulteriore. Noi pensiamo alla vita in termini di realizzazione. L’inno ai Filippesi ci ricorda che la logica di Dio è un’altra. La logica della relazione con Dio non è quella della necessità, dunque anche la relazione con lui non è nella forma di qualcosa che mi realizza o meno. E’ invece necessario rompere gli specchi che continuamente ci costruiamo per svuotarsi (la kenosis della Croce) di sé. In questo senso, per esempio, l’obbedienza non è una logica medievale o oscurantista, ma il vero vincolo di una relazione che non sia sempre narcisistica. L’autorealizzazione non è stata la logica di Gesù, neanche quella — come diremmo noi — a fin di bene o per portarci tutti in chiesa. Se vogliamo avere il suo stesso pensiero è necessario perdere l’incubo di noi stessi. Di questo vive ogni relazione che sia gratuita e incondizionata: è segno che appella alla tua libertà tanto da renderti pazzo se al dono ricevuto tu non potessi ricambiare nulla. In queste tempi dove avvertiamo così tante emergenze umane (educative, lavorative…) per uscirne è necessario rompere il nostro narcisismo primario e inventarci qualcosa, non importa se ne avremo un rendiconto, la posta in gioco non è solo il benessere dei nostri figli, ma molto di più.