Salmo 50 (51) Miserere

Salmo 50 (51) Miserere

1 Al maestro del coro. Salmo. Di Davide.
2 Quando venne da lui il profeta Natan dopo che aveva peccato con Betsabea.

3 Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia;
nella tua grande bontà cancella il mio peccato.
4 Lavami da tutte le mie colpe,
mondami dal mio peccato.
5 Riconosco la mia colpa,
il mio peccato mi sta sempre dinanzi.
6 Contro di te, contro te solo ho peccato,
quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto;
perciò sei giusto quando parli,
retto nel tuo giudizio.
7 Ecco, nella colpa sono stato generato,
nel peccato mi ha concepito mia madre.
8 Ma tu vuoi la sincerità del cuore
e nell’intimo m’insegni la sapienza.
9 Purificami con issopo e sarò mondo;
lavami e sarò più bianco della neve.
10 Fammi sentire gioia e letizia,
esulteranno le ossa che hai spezzato.
11 Distogli lo sguardo dai miei peccati,
cancella tutte le mie colpe.
12 Crea in me, o Dio, un cuore puro,
rinnova in me uno spirito saldo.
13 Non respingermi dalla tua presenza
e non privarmi del tuo santo spirito.
14 Rendimi la gioia di essere salvato,
sostieni in me un animo generoso.
15 Insegnerò agli erranti le tue vie
e i peccatori a te ritorneranno.
16 Liberami dal sangue, Dio, Dio mia salvezza,
la mia lingua esalterà la tua giustizia.
17 Signore, apri le mie labbra
e la mia bocca proclami la tua lode;
18 poiché non gradisci il sacrificio
e, se offro olocausti, non li accetti.
19 Uno spirito contrito è sacrificio a Dio,
un cuore affranto e umiliato, Dio, tu non disprezzi.
20 Nel tuo amore fa grazia a Sion,
rialza le mura di Gerusalemme.
21 Allora gradirai i sacrifici prescritti,
l’olocausto e l’intera oblazione,
allora immoleranno vittime sopra il tuo altare.

Si potrebbe parlare in tanti modi di questo salmo. A partire ad esempio dalla grande riflessione di Georges Rouault, grande artista del primo novecento, che nel ’22 fa più di cinquanta immagini differenti sul Miserere, raccontando il dramma della guerra e la povertà dell’uomo. Si potrebbe commentare il salmo dalla stupenda musica di Allegri, composta per la cappella Sistina, in una particolare celebrazione a candele spente il Giovedì Santo. Tanto affascinante e bella che il papa la riteneva sacra, impedendone ogni trascrizione o copiatura perché rimanesse solo per quell’uomo. Ed è famoso che il giovane Mozart quattordicenne, portato a Roma dal padre, sentitala una volta ne impara a memoria le note e modo da portarla a Salisburgo…

In tantissimi hanno parlato di questo salmo, ma io mi limiterà a raccogliere qualche mia impressione, lasciando da parte la cultura. Cercherò di unire in questa riflessione un commento letterale (di cosa parla il testo?) con diversi temi spirituali presenti. Di solito i vari tipi di lettura (letterale, allegorica, morale…) vengono svolti separatamente, ma io cercherà di tenere assieme i piani.
Trattandosi di una preghiera poetica penso valga quanto vale per le poesie alle quali ci siamo affezionati: dobbiamo avere i nostri salmi preferiti e le nostre frasi preferite. Il critico letterario Dante Isella, in una prefazione alle poesie di Montale: “si tratta di trovare la giusta via di mezzo tra il non capir nulla e il capir troppo”.
Cercherò di mettere in luce qualcosa, qualche particolare al quale io mi sono affezionato e poi affido a voi questa preghiera che penso diventerà vostra solo quando l’avrete imparata a memoria, solo quando ci sarà qualche frase che vi ripeterete interiormente. Lo scopo è che vi venga voglia di recitarla e impararla a memoria. Solo quando l’avrete imparata a memoria vi sarete affezionati.
Sono convinto che le preghiere vadano sapute a memoria e solo in tal modo riempiono l’anima, ci fanno compagnia nei momenti di solitudine, ci ritornano in mente in macchina, quando siamo a fare la coda… e plasmano il nostro pensiero “dall’interno”.

“Pietà di me” o “abbi pietà di me”, in latino “miserere”, il Salmo inizia subito senza preamboli presentando il suo tema. La questione è quella del perdono. Ma questa questione è detta subito senza grandi antefatti, come se qualcuno fosse all’estremo, avesse trattenuto per lungo tempo e poi improvvisamente potesse esprimere il suo bisogno. Come qualcuno che ha un nodo alla gola e ora può parlare.
Ogni tanto mi domando anche io se per noi ha ancora senso pregare, oppure se talvolta se ci tratteniamo, recitiamo meccanicamente delle formule, perché Dio lo sentiamo lontano o distaccato, come se non gli importasse del nostro desiderio, come se non sentisse le nostre richieste.
Siamo qui di fronte a una preghiera che ci chiede un atto di fede: non dare per vano il nostro pregare, non credere inutili le nostre parole. Già per questo il Salmo inizia chiedendoci un atto di fede e di fiducia in noi stessi. Non dobbiamo dare per scontato questo: è una cosa enorme poter dire, credendoci, “abbi pietà”.

C’è una seconda questione particolare del Salmo. C’è tutto questo grido per chiedere perdono, ma non viene detto per cosa si chiede perdono? Qual è questo grande peccato commesso? Non viene detto. Si dice: sono un grande peccatore, ma per cosa?
Il titoletto pare riempire questo vuoto, questa strana mancanza: la determinazione di questo peccato. Il titoletto è successivo di epoca e dice che il Salmo è di Davide e fu pronunciato quando “venne da lui il profeta Natan dopo che aveva peccato con Betsabea”.
Così, in qualche modo si mette un contesto a questa richiesta di perdono. Si tratta del grande peccato di Davide. Ne richiamo la storia: Davide era ormai re a Gerusalemme mentre l’esercito conduceva delle guerre contro i Moabiti e alzatosi un tardo pomeriggio dal letto si mise a passeggiare sulla terrazza e vide una donna che si fece chiamare e mise in cinta, Betsabea moglie di Uria. Quando la donna rimase in cinta Davide dovette rimediare a questo fatto e penso un piano: di chiamare il marito Uria dall’esercito, di farlo bere molto e di invitarlo a stare con sua moglie (non c’era il test del DNA). Tuttavia, il piano fallisce perché Uria, pensando ai compagni in guerra dorme fuori dalla porta di casa. Dunque, Davide pensa di farlo uccidere in battaglia e quindi può sposare Betsabea. La cosa però non si conclude qui: perché il potere che Davide aveva lo aveva accecato rispetto al peccato commesso. Forse è questo il primo peccato: una hybris così grande che non permette neanche di vedere il male che si è commesso. Forse per questo il pentimento è così sottolineato, perché si tratta di qualcosa che non si era capaci nemmeno di vedere. È il profeta Natan che raccontandogli una parabola (di un uomo ricco con molte pecore e di un uomo povero con una pecora sola) gli fa vedere ciò che ha commesso con occhi nuovi. Così Davide avrebbe cantato questo Salmo di perdono.
La cornice narrativa serve dunque a riempire questo grande peccato di cui si chiede perdono. Però è una cornice postuma. L’indeterminatezza penso permetta a ciascuno di immedesimarsi, di esprimere il proprio peccato, grande o piccolo che sia. Ma poi anche di farci capire che il peccato non è necessariamente solo questo o quello sbaglio. C’è un senso di fallimento, di delusione di noi stessi che non è talvolta neanche il prodotto di un singolo sbaglio. Alla fine del Cyrano, il conte de Guiche (persona mediocre del romanzo) dice di sé stesso di invidiare Cyrano e aggiunge:” quando la vita suona all’ora della raccolta, si sentono –senza aver fatto troppo di male—mille piccoli disgusti di sé stesso il cui totale non fa un rimorso pieno ma un malessere oscuro…”  
È la riflessione che fa Giorgio Gaber in un famoso monologo dal titolo “L’equazione”. Il cantautore si immagina di fare un piccolo esame di coscienza e si accorge che ci sono sbagli errori che nella vita paiono non potersi cancellare, sembra invece si sommino. Mi sembra una bella riflessione sul tema della necessità di un perdono.

Dunque: il lavoro, bè il lavoro non manca. Voglio dire, c’é anche chi ce l’ha. Ma in genere non gode. L’impegno sociale morale civile, mi viene da ridere. La salute finché uno ce l’ha non ci pensa. Non resta che l’amore, la sfera degli affetti dei sentimenti. Che forse dentro, é la cosa che conta di più. E poi quella almeno, ce la scegliamo da noi. Un disastro!
Ma se si fallisce sempre, ci sarà una ragione. Dov’è che si sbaglia? Eh? Colpa mia… colpa tua… no, io a quelle cose lì non ci credo. L’errore dev’essere prima. Non una cosa recente. Probabilmente da bambino, un errore che ha influenzato tutta la nostra vita affettiva. Chi lo sa? Forse, il famoso Edipo. Forse, mamma ce n’é una sola. Anche troppa. Oppure nonni, zii fratelli, insomma figure, fotografie dell’infanzia che rimangono dentro di noi per tutta la vita.
Sì, un errore innocente impercettibile, che poi col tempo si è ripetuto moltiplicato ingigantito, fino a diventare gravissimo, irreparabile.
Già, ma perché l’errore si ingigantisce? Dev’essere un po’ come quando a scuola, facevamo le equazioni algebriche. Cioè, tu fai uno sbaglietto una svista, un più o un meno, chi lo sa… E’ che poi te lo porti dietro, e nella riga sotto cominci già a vedere degli strani numeri. E dici, va bè tanto poi si semplifica. E poi numeri sempre più brutti più grossi, sgraziati anche. Addirittura enormi, incontenibili, schifosi.
E alla fine: X =  472.827.324 / √87.225.035 + C
E ora prova un po’ a semplificare.
Non c’è niente da fare. La matematica deve avere una sua estetica: X = 2. Bello, la semplicità.
Forse, per fare bene un’equazione é sufficiente avere delle buone basi. Ma per fare una storia d’amore vera e duratura, è necessario essere capaci di scrostare quella vernice indelebile, con cui abbiamo dipinto i nostri sentimenti.

Questo monologo mi ha sempre fatto pensare alla necessità di essere perdonati e non solo dagli altri per qualche singolo sbaglio, ma più radicalmente da quello che siamo, dal fallimento che talvolta ci accorgiamo di essere.

Il testo del salmo contiene altre due particolarità, due caratteristiche che mi hanno fatto riflettere.
La prima è la tensione tra la consapevolezza di sé (quello e che siamo e quello che siamo capaci di fare) e la grandezza di Dio (quello che deve fare lui).
La seconda è la tensione tra mondo del peccato e del pentimento e la gioia del perdono.

1) E’ un Salmo fatto tutto di richieste a Dio. Ci sono ben 17 imperativi che chi prega chiede a Dio.
Abbi pietà, lavami, purificami, fammi sentire gioia, cancella, crea, non respingere…
Fa abbastanza impressione questa insistenza e tutte queste richieste. Ci vuole la fiducia dei bambini per chiedere tutte queste cose.
C’è qualcosa che deve fare solo Dio. È lui che deve purificare, lavare… io posso solo chiedere. Dentro tutte queste richieste (il salmo è proprio un elenco quasi sfacciato di richieste) ci sono due piccole perle: detto quasi sottovoce quello che sono io (conosco la mia colpa… contro di te ho peccato… dal senso della madre sono nel peccato…). E la seconda perla (che fa da eccezione alle richieste) è: ti prometto che se mi perdoni “insegnerò agli erranti le tue vie”. Questa seconda richiesta è stupenda: l’unica cosa che posso darti in cambio è la mia testimonianza.
Ma tutti questi imperativi mi fanno venire una domanda: forse è solo Dio che può cambiare davvero la mia vita. Da solo cosa posso fare?
Solo Dio può fare giustizia e la giustizia, compreso il mio perdono, viene da lui. Perché a riparare questo mondo e neanche noi stessi, noi del tutto non siamo capaci.

Mi viene in mente una scena di Manzoni, il capitolo 35° quando Renzo cerca Lucia a Milano e ha saputo che forse si trova al lazzaretto tra i morti di peste. E, immaginate, gli viene la rabbia… cercarla dove puoi trovarla morta. Da subito però non trova dove sono le donne, ma trova Fra Cristoforo, il vecchio frate con la voce stanca ma con due occhi che avevano dentro un fuoco più ardente… e il vecchio Frate, dopo diverse domande, fa una domanda tremenda a Renzo, gli chiede: e se non la trovi? Se non trovi Lucia cosa fai? E Renzo, acceso dalla rabbia dice: “se non trovo lei troverò qualcun altro…”. Allora il frate, ritrovata la sua energia di un tempo dice: “sciagurato! Guarda chi è colui che giudica e non è giudicato! Tu verme della terra, tu vuoi fare giustizia!?”  Renzo dovrà perdonare don Rodrigo, morente anche lui al Lazzaretto, prima di poter ritrovare sana e salva Lucia.
Io penso che noi abbiamo perso un po’ questo senso che non siamo noi i padroni della storia, che sia Dio a perdonare e a fare giustizia. Questa umiltà di chi non si fa Dio, di chi sa che non ha l’ultima parola sugli altri. Di chi perdona perché dovrà essere perdonato a sua volta. 17 imperativi del Salmo mi ricordano che sei tu Dio che farai davvero giustizia.

2) Una seconda tensione riguarda il regno del peccato, della colpa e la gioia del perdono.
Cosa è il peccato in questo salmo?
Sono tre le parole e le immagini che si usano per dire peccato.

  1. Cancella il mio peccato”. Qui la parola è peshà. Cosa significa questa prima parola (peccato-peshà): è il non avere limiti, il non accettare dei limiti, il ribellarsi a Dio. Si fa riferimento al vassallo che si ribella al suo signore. Si fa riferimento al peccato di Adamo: quel sospetto che il nostro essere limitati sia una condanna, sia una punizione. È accettare che io sono solo io, sono solo un prete e non sono mille cose. Il peccato è il mio ribellarmi alla mia natura di uomo.
  2. Una seconda parola è “lavami da tutte le mie colpe”. Qui la parola tradotta malamente con “colpa” è invece “awòn”. Awon è il perdersi. C’è un sentiero, una strada e io mi perdo. La grande Hannah Arend, la donna che più ha riflettuto sul senso del male e del peccato, dice difronte al grande “assassino” Heichman, al grande peccatore, che la radice del male non è l’egoismo (pecco perché così traggo un vantaggio per me) ma è la rinuncia a essere veri uomini, la rinuncia a dare valore a quella caratteristica che ci rende umani, ovvero la nostra capacità di pensare. Il pensare, il riflettere. Rinunciare a sé stessi è perdersi. Il male banale è per la Arendt quello che non vale i soldi dell’avvocato, quello che commetti solo perché lo fanno tutti, perché è un costume sociale. Le grandi derive morali (il razzismo ad esempio) avvengono non perché gli uomini sono più cattivi ma perché smettono di pensare. Si perdono. Interessante che poi alla fine della sua vita la Arendt, si correggerà e dirà: il male non è banale e radicale, il male è soltanto estremo perché solo l’amore è radicale. Lavami dal mio perdermi.
  3. La terza parola che usa questo testo è ancora tradotta con colpa “conosco la mia colpa”, ma la parola è diversa (tahèr) e significa fallimento, sbagliare il bersaglio, mancare lo scopo. Conosco il mio fallimento. Il peccato non è soltanto trasgredire una noma, ma -come mi disse un papà- “potevo stare con mio figlio ma non ci sono stato”. Era una cosa alla mia portata, era ciò per cui ero qui, era il mio compito, il mio obbiettivo e l’ho fatto male, l’ho mancato.

Accanto a questo regno del peccato e del male che è descritto come “orgoglio”, come un “perdersi da una strada” e come “fallire la propria vocazione”, c’è il regno del perdono e della gioia.
Anche questo regno è descritto riferendosi a diverse immagini: c’è l’immagine giuridico economica del cancellare (abradere le lettere da un foglio), c’è il mondo delle lavandaie che sbiancano e lavano, c’è il mondo cosmologico della neve che copre ogni cosa (Isaia: anche rossa come scarlatto). C’è il mondo cultuale dell’issopo: una pianta non ben identificata (forse rosmarino) che veniva usata come aspersorio, per esempio in Es per segnare gli architravi delle case degli ebrei.
La cosa interessante è che accanto a tutto questo mondo di immagini c’è un intero corpo umano che viene rigenerato: cuore (centro della decisione) puro e poi affranto e umiliato; spirito (saldo e poi contrito) ma anche le ossa, la bocca, il sangue, la lingua…
C’è infine l’immagine del sacrificio, per noi quello di Gesù. Parola desueta “dover compiere un sacrificio”, dover fare “fatica”. Le frustrazioni, la fatica, il sacrificio, si tendono oggi più a evitare e sembrano l’opposto della felicità. Eppure, sono l’unica strada per voler bene agli altri. Per noi è il sacrificio di Gesù che ha risparmiato i discepoli, li ha protetti dalla sofferenza della croce.  

Mi diceva un ragazzo: “faccio fatica a pensarmi papà perché mi spaventa che ogni mio errore di genitore ricadrà su mio figlio”. Penso che se non si rischia di sbagliare si rimane sterili, ma si può rischiare solo se si è fermamente interiorizzato che lo sbaglio non è l’ultima parola… se prevale la perfezione della nostra vita, se non c’è perdono, se non si può dire “miserere…” non si troverà razionalmente il coraggio di generare, nella carne e neanche nella fede. Allora forse questo Salmo può essere pregato per darci una coscienza diversa. Perché davanti ai nostri errori o facciamo finta di non guardarli –ed è come seppellire un cadavere ancora vivo– oppure li guardiamo in faccia perché qualcuno ci può perdonare. In questo senso, il regno del peccato e quello del perdono sono strettamente uniti.

Un detto orientale recita:
Un uomo disse a Rabi’a: ho commesso molti peccati e molte trasgressioni: ma se mi pento Dio mi perdonerà? Rispose Rabi’a: No, tu ti pentirai, se Egli ti perdonerà”.