S. Pasqua

At 1,1-8a; Sal 117; 1Cor 15,3-10a; Gv 20,11-18

Cosa sarebbe la nostra vita se fossimo convinti che la morte sia davvero l’ultima parola? Cosa ne sarebbero di tutti quei legami e desideri buoni che abbiamo visto infrangersi nella nostra storia?
Cosa accadrebbe se non avessimo nessuna conferma della nostra speranza che “non sia così”, nessun sostegno a quella vocina interiore che, in molti circostanze, ci fa dire: “una fine così è ingiusta”?

Bisogna molto amare qualcuno per capire la lacerazione di una vita senza Pasqua. Bisogna avere forti passioni buone e desideri veri per capire il patimento del loro infrangersi. Per capire lo schianto che tante lacerazioni provocano dentro di noi, che tanti legami suscitano quando li vediamo infrangersi. Perché la morte che ci strappa gli affetti è sempre insopportabile. Non solo la morte fisica, ma anche ogni frustrazione ai desideri buoni della vita, alle amicizie giuste, agli amori aspettati.

Cosa sarebbe –chiedevo ai miei studenti visitando un campo di concentramento (ma solo perché lì si vede forse più chiaramente quello che succede a tutti in misura inferiore)– se non ci fosse davvero un riscatto per quei sei milioni di morti tragicamente trucidati? E se non esistesse una giustizia per i loro aguzzini?
Bene, dovremmo dire che non resterebbe che credere alla fortuna, al puro godimenti, all’accumulo di un arraffo quotidiano. Perché senza Pasqua non c’è la possibilità di un riscatto e di una vera giustizia. Dovremmo cinicamente dire: sono nati sfortunati e punto. Ma come stona tutto questo con la nostra natura umana.

Senza la risurrezione di Cristo, dice Paolo, anche la nostra fede è vana. E aggiungerei: è vano il nostro amore che dura poco ed è anche molto faticoso. E’ vana la fatica di crescere figli. Sono vane le opere della giustizia e della carità che ci sforziamo di compiere. “Godere” diventerebbe lo slogan dell’uomo, ma anche il suo fatale e definitivo abbrutimento. Perché nel “godere” l’uomo è destinato a svanire presto, a disciogliersi anch’esso, a finire affogato come Narciso che contempla allo specchio il suo volto.

Noi siamo qui a ripeterci che è spazzata via l’ultima maceria tra noi e la nostra speranza. La frustrazione di dover vivere “godendo il più possibile ora perché poi…”, la frustrazione di avere la realizzazione di sé stessi come unico obbiettivo (ovviamente mai realizzato appieno, perché costruita come utopia irrealizzabile…)… tutte queste cose sono frustrazioni che possiamo far rotolare via come la pietra del sepolcro.
Perché invece, quando intuiamo una passione buona, una amicizia vera, un amore forte, noi oggi possiamo dire che davvero queste non vanno perdute e se anche qui le perdiamo, possiamo stare certi che ci verranno restituite nella loro giustizia.

La morte, “il nostro nemico”, non si tiene neanche il corpo. Noi pensavamo che Dio al più si sarebbe preso l’anima e i corpi e il mondo li lasciava al loro destino di logoramento. Eppure, una vocina ci lanciava un segnale: come sbianchettare per sempre gli incanti e i sogni che un essere umano forma e riforma continuamente dal suo nascere proprio grazie al suo corpo? Anche questo non va perduto e sappiamo che il nostro istinto non ci inganna.

Se abbiamo visto che “il finale” della vita è buono (come la sua origine), allora vale la pena battersi per i legami e per la giustizia, senza cedere alla tentazione che sia solo l’istante di un breve godimento l’unico senso tangibile del nostro essere al mondo.
Non so se ci conquisteremo la vita eterna, ma certamente vivremo meno frustrati dai mancati “godimenti” che altri vorrebbero venderci a tutti i costi, cancellando la nostra speranza nelle passioni e nei legami buoni.