S. Natale

Se oggi siamo qui penso sia perché c’è un senso in questa festa. C’è un senso, c’è un significato.
Siamo qui per un significato che però potremmo anche non dare. Potremmo accontentarci della cena o del pranzo, del ritrovo famigliare (per chi ha una famiglia), dei regali e forse sopratutto delle vacanze. Molti si accontentano di questo. Per molti la festa è questo e non serve alcun “perché”, alcun “contenuto”, alcun “Dio”… che dia un senso, un significato.
Io, personalmente, non sono mai riuscito ad accontentarmi di questo: se tutto finisse nel pranzo, negli auguri, nei sorrisi… mi lascerebbe un grande vuoto. Se questa festa valesse solo per la festa in sé, senza scopo, senza fede, senza un “Dio”… finirebbe lasciandomi nulla. Sarei pronto ad aspettare poi soltanto le prossime ferie, in fondo schiavo ormai del mio lavoro o della mia routine.
Tutto tornerebbe ad apparirmi un correre a vuoto intorno al vento. Diceva un canto: “Ma quando la festa è finita rimane la vita e devi pensare di nuovo. Che cosa diremo ai bambini dell’uomo che nasce che vive e che muore?”. Cosa gli diremo senza uno scopo, senza un senso?

Gli antichi guardavano le stelle. Guardavano il sole che compie i suoi giri e cicli. Noi forse guardiamo i telegiornali, i cicli del nostro benessere, delle nostre economie e dei nostri pil. A cosa guardiamo per dire il senso della vita umana? Guardiamo alla fortuna, al caso e alle sorti? Oppure insegnano a conquistarci il mondo da soli convinti che sia la nostra forza di volontà a salvarci?

Quando arrivò in occidente il cristianesimo insegnò a non guardare più le sorti delle stelle o del sole. Non guardare la fortuna o la forza di volontà. Non è lì il senso del nostro affannarci. Bisogna guardare un uomo, Gesù Cristo, storicamente nato e morto. E’ lui il senso della nostra vita. Solo guardando questo uomo scopriamo un senso che non ci mette in balia della paura e delle superstizioni o negli affanni degli arrivismi.
Il senso di questa festa è che il senso della mia vita è in Gesù Cristo. Provo a dire questo come lo direi ai miei ragazzi di scuola. Cosa significa che per me che il senso della vita è Gesù Cristo? Io direi così, ma ognuno deve poterlo dire con le sue parole, altrimenti oggi celebra ben poco.

Quando alla domenica pomeriggio vado con il mio amico Martino a passare due ore del mio tempo dai disabili del don Orione, io so che non sto in realtà salvando nessuno. E questo non è facile da vivere. Quello che questi ragazzi hanno bisogno io non ce l’ho perché non lo misuro io. Se sono onesto so che neppure la società più perfetta, l’organismo migliore, la ricchezza più ingente, la salute più di ferro, li potrà mai fare contenti. Quello che li fa contenti non è una fortuna e non è il “prodotto di un lavoro umano”, tanto meno il “mio”. Se voglio bene a qualcuno mi accorgo di questo: non posso creare io la felicità dell’altro. Quale papà può dire onestamente di essere lui l’unica causa vera del sorriso del figlio? Il sorriso e la felicità del figlio è qualcosa di più grande del mio sforzo, qualcosa che so di non potergli dare io totalmente. Io non vado al don Orione per fare contenti i disabili e per “essere contento di aver fatto contento qualcuno”. Non è in questo risultato (che non c’è) il senso al mio gesto.

Invece, mi accorgo che il mio stare lì, rivela qualcosa del senso ultimo e universale della mia vita che vale per me come per i ragazzi tamarri che ho a scuola. Imparo qualcosa di una legge della vita che mi compie davvero. Ma non è un moto pietistico o umanitario, non è la sensazione di un momento. E’ Gesù Cristo che svela questa legge. E’ Gesù Cristo che compie la mia umanità, lui rivela ciò che è la mia verità: quella legge di quelle due ore sono la legge di tutta la mia vita se sono state nel “modo” di Gesù Cristo.

Per scoprire il senso della vita, la mia felicità, non devo attendermi dalla fortuna chissà che cosa, ma devo imparare questa legge e la imparo da un uomo che ne rivela la grandezza. Cristo mi rivela la legge della mia vita. Se lo faccio, trovo il senso del mio affannarmi e dei miei affetti. Senza avere più paura della vita o di chissà cosa potrà accadermi, perché ho trovato il mio scopo. Aver trovato un senso è poter dire anche che quel tempo non andrà perduto e io non avrò corso per nulla…

Ma senza questo senso, senza essere arrivato fin lì, ho l’impressione che tutto sia “provvisorio”, tutto sia “relativo”, “incerto”, il moto del cuore di un momento, anche quelle due ore passate con i ragazzi in carrozzina. Allora devo tornare a temere la fortuna in una vita che gira senza senso, nell’affanno di tante feste che mi costringerebbero –per poterle sopportare– a non pensare dove sto andando davvero. E del Natale resterebbe soltanto una vuota convenzione.