Ritiro Sabato Santo 2012 – Il Maestro Interiore

Vorrei che questo ritiro fosse un momento particolare per la nostra piccola storia. Lo dico perché i momenti non sono mai quelli che “capitano” ma quelli che “vogliamo fare capitare”. Senza un volere, nella nostra vita, non accade nulla, ma al massimo ci “accadono addosso” delle cose. Una prima domanda riguarda sempre l’atteggiamento con il quale voglio stare davanti al tempo e agli altri.
Premessa
Mi immagino che uno spesso si trovi nella situazione di non avere nulla da chiedere, perché non sa neanche cosa desiderare, o cosa volere. Lo dice per esempio Paolo in una sua bellissima confessione di fede: “noi non sappiamo bene che cosa dobbiamo chiedere, ma è lo Spirito stesso che prega per noi con gemiti inesprimibili” (Rm 8,26). Proprio a causa della nostra situazione di confusione o di mediocrità del vivere (“le cose vanno così, né bene né male…”) è necessario scolpire nella nostra coscienza dei momenti nei quali vogliamo fare chiarezza, delle Pasque, delle Quaresime. Dire di noi: ecco c’è stato il tempo dell’innamoramento, del gruppo, della adolescenza, gli anni di don Fabio, ora questo tempo per cosa è? Per cosa mi devo adoperare per essere cristiano? Cosa devo imparare a desiderare? Insegna il libro di Qoelet che perdere la qualità del tempo è più grave di non avere tempo. Perdere la qualità del tempo (per cosa è questo mio tempo? viene dopo cosa e andrà dove?) è come perdere l’incontro con il Signore. Si può leggere Qoelet al capitolo 3.
Il lavoro di guardare alla propria vita interiore non lo si può delegare a nessuno. Non si può delegare al prete o alla mamma o alla società. E così anche non accade da solo quasi fosse una cosa in sé naturale. Al contrario, ha bisogno di una educazione personale. Nessuno ti potrà dire cosa devi fare oggi, per esempio: in cosa ti devi appassionare, cosa fare con i genitori, quali amici frequentare, cosa fare con loro, come spendere il tuo tempo libero, come devi progettare il tuo futuro… Qualcuno ti potrà solo suggerire, per come ti conosce, ma è al tuo rapporto interiore che devi guardare. Non è mai troppo tardi per dedicarsi a questo. Non è mai tempo buttato. E non c’è domani propizio per farlo.
Faccio due considerazioni che hanno come sfondo il lungo discorso di Gesù ai discepoli durante l’Ultima Cena. Lo tengo come sfondo per non fare la predica ma chiedo nel vostro tempo di leggere queste pagine e di meditarle voi personalmente. Il Vangelo di Giovanni da grande peso a questo momento (su 21 capitoli, i discorsi dell’ultima cena occupano 5 capitolo: dal 13 al 17). Faccio due precisazioni sulle quali vi chiedo di riflettere. Le prendo anche da temi cari a S. Agostino, uomo con il quale prima o poi bisognerà confrontarsi.
(1) Il Signore è il nostro Maestro Interiore
S. Agostino, riprendendo S. Paolo, fa ripetutamente questa affermazione, che mi sembra una buona introduzione al discorso di Gesù: “Il Signore è il nostro Maestro interiore”.
Questo significa che la nostra educazione spirituale, come anche il nostro educare, passa certamente attraverso molti incontri, molte simpatie, molte celebrazioni, ecc. ma noi non ci dobbiamo dimenticare che, “prima” e “dopo” tutto, il nostro unico Maestro è il Signore. Dobbiamo poter ricorrere a questa relazione: è una relazione sulla quale ogni discepolo deve sapere di poter contare. Poter contare anche sul fatto che questa relazione sia significativa per noi come anche per ogni altro uomo che incontriamo, anche per i propri ragazzini, per i propri genitori, per il proprio prete ecc.
Il Maestro interiore non smette di insegnarci neanche quando tutti gli altri non hanno più nulla da dirci. Non delude neanche quando tutti gli altri iniziano (prima o poi) a deluderci.
Faccio un’ultima nota su questo: dobbiamo nutrire la persuasione che non c’è nessuno che sia così abbandonato da Dio da aver perso la possibilità di una discernimento interiore o di una vita interiore. Un discernimento interiore significa che il peso della nostra vita non si appoggia solo all’esteriorità, all’opera pratica, ai soliti modi di divertirsi o di lavorare/studiare, alla simpatia o alla routine delle abitudini.
Oggi abbiamo molta più tecnologia e potere comunicativo o emotivo sulle cose. Pensate a questo uso tremendo e ininterrotto dei cellulari per cui si è a cena e non si riesce a parlare perché nel frattempo massaggiamo con altri. Pensate a quanto stia diventando strutturale il nostro essere vicini fisicamente ma lontani con la mente e il cuore perché abbiamo bisogno un mezzo meno diretto e più mediato, come un sms, per dire qualcosa all’altro. Essere connessi con tutti significa non essere con nessuno. Oppure, basterebbe guardare quanto questo non rispetti i tempi della vita e della comunicazione degli uomini (dico una cosa a te e allo stesso tempo parlo a un altro).
Viceversa nutriamo anche il più forte senso che l’interiorità sia un sentimento evanescente, indecifrabile e incerto, oppure peggio il luogo di uno psicologico meccanismo. Che i pensieri e le emozioni interiori siano appunto difficili da decifrare, che capitino soltanto con gli umori, che vengano solamente in gran parte subiti (sono triste perché ricomincia la scuola…) e molto spesso confusi con semplici “stati emotivi”. Educare significa imparare a dare parole e apprezzare personalmente le infinite differenze tra i diversi stati d’animo. Dice il Signore: non c’è interiorità priva di possibile orientamento. E ogni volta che i nostri sguardi si incrociano e scopriamo un desiderio di bene per l’altro, non è solo un’emozione interiore quella che ci percuote, ma il Maestro interiore ridesta la consapevolezza della singolare nostra condizione umana e il riconoscimento del carattere non illusorio del desiderio di vita eterna che lo abita.
Su questo primo punto si potrebbe leggere la promessa che fa Gesù ai suoi, proprio poco prima dell’addio:

Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi. Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. Questo vi comando: amatevi gli uni gli altri.
Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo, per questo il mondo vi odia. Ricordatevi della parola che vi ho detto: Un servo non è più grande del suo padrone. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi; se hanno osservato la mia parola, osserveranno anche la vostra. Ma tutto questo vi faranno a causa del mio nome, perché non conoscono colui che mi ha mandato. Se non fossi venuto e non avessi parlato loro, non avrebbero alcun peccato; ma ora non hanno scusa per il loro peccato. Chi odia me, odia anche il Padre mio. Se non avessi fatto in mezzo a loro opere che nessun altro mai ha fatto, non avrebbero alcun peccato; ora invece hanno visto e hanno odiato me e il Padre mio. Questo perché si adempisse la parola scritta nella loro Legge: Mi hanno odiato senza ragione.
Quando verrà il Consolatore che io vi manderò dal Padre, lo Spirito di verità che procede dal Padre, egli mi renderà testimonianza.

(Gv 15,15-26)
Ora però vado da colui che mi ha mandato e nessuno di voi mi domanda: Dove vai? Anzi, perché vi ho detto queste cose, la tristezza ha riempito il vostro cuore. Ora io vi dico la verità: è bene per voi che io me ne vada, perché, se non me ne vado, non verrà a voi il Consolatore; ma quando me ne sarò andato, ve lo manderò. E quando sarà venuto, egli convincerà il mondo quanto al peccato, alla giustizia e al giudizio. Quanto al peccato, perché non credono in me; quanto alla giustizia, perché vado dal Padre e non mi vedrete più; quanto al giudizio, perché il principe di questo mondo è stato giudicato.
Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annunzierà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà del mio e ve l’annunzierà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà del mio e ve l’annunzierà.
(Gv 15,5-15)
(2) Non ho incontrato nulla di più prezioso di Te
La seconda espressione di S. Agostino sulla quale vorrei che meditassimo insieme –che mi pare fare eco a Gv 15,13 (nessuno ha un amore più grande di questo, dare la vita per i propri amici) è quella di poter dire: “non ho amato mai altri quanto Te”, “non ho incontrato nulla di più prezioso di Te”.
Penso che ognuno possa confrontarsi con questa frase non a partire dalla coerenza del proprio comportamento (quanto dedico al Signore?) ma a partire dal desiderio e dalla dialogo appassionato con il proprio Dio. La verità di questa frase non è una conseguenza da verificare nelle mie azioni, ma un desiderio del cuore.
“Il Signore Gesù è la cosa che di più caro ho nella vita”. Quando uno prega, se in fondo non è consapevole di questa cosa, mi chiedo se stia pregando davvero. Osservate: potrei fare a meno di molto – per assurdo e con infinito dolore potrei anche sopportare la mancanza di molti – ma non potrei fare a meno del fatto che ho incontrato il Signore, che posso rivolgergli la parola e sapere di essere ascoltato, che posso leggere la sua storia tra gli uomini.
Sottolineo alcuni rischi di questa relazione e della nostra religiosità: 1) una relazione puramente nominalistica, ridotta a un “dovere” posto sotto la condizione di un “senso di colpa” o di un rimorso. Ad esempio: se non prego, se non vado a messa, mi viene un rimorso… 2) Una pratica della comunità e della frequentazione fin troppo “normale”. Dove ogni slancio di fede è visto come “impossibile” o “non per me”. Dove lo sguardo su di me dei miei compagni conta molto di più di un criterio evangelico.
E’ necessario – direbbe l’Apocalisse – ritrovare l’amore di un tempo. Ognuno di noi si confronti sempre anzitutto con questo: con l’eros (il desiderio) che lo tiene legato a questo Dio, prima che tutto il resto.
Dove nasce questo desiderio? Agostino direbbe dal nostro cuore inquieto. Giovanni direbbe nell’ultima cena: “dal fatto che conoscete Dio e lo conoscete perché lui vi ha amati e vi ha sottratti dal potere del mondo”. In ogni caso è questa origine erotica che ci rende cristiani, non la nostra abituata frequentazione.
Pascal, nel momento della sua conversione annota nel suo diario una frase che per me resta bellissima e merita di essere da tutti meditata.

L’anno di grazia 1654,
Lunedí, 23 novembre, giorno di san Clemente papa e martire e di altri nel martirologio,
Vigilia di san Crisogono martire e di altri,
Dalle dieci e mezzo circa di sera sino a circa mezzanotte e mezzo,
Fuoco.
Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, non dei filosofi e dei sapienti.
Certezza, Certezza. Sentimento. Gioia. Pace.
Dio di Gesú Cristo.
Deum meum et Deum vestrum.
“Il tuo Dio sarà il mio Dio”.
Oblio del mondo e di tutto, fuorché di Dio.
Lo si trova soltanto per le vie insegnate dal Vangelo.
Grandezza dell’anima umana.
“Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto”.
Ch’io non debba essere separato da lui in eterno.
Gioia, gioia, gioia, pianti di gioia.
Mi sono separato da lui.
Dereliquerunt me fontes aquae vivae.
“Mio Dio, mi abbandonerai?”.
“Questa è la vita eterna, che essi ti riconoscano solo vero Dio e colui che hai inviato: Gesú Cristo”.

(B. Pascal, Pensieri, a cura di P. Serini, Einaudi, Torino, 1967, pagg. 421-422)

L’origine di questo cuore inquieto, dell’eros verso il nostro Dio che ci fa dire “nulla ho incontrato di più caro” può essere letto anche in una pagina di Siddharta che rappresenta un bellissimo cammino “spirituale” non cristiano ma che parte dalla stessa inquietudini di Agostino:

Il cuore del padre balzava di gioia per quel figlio così studioso, così avido di sapere; era un grande sapiente, un sommo sacerdote quello ch’egli vedeva svilupparsi in lui: un principe fra i Brahmini.
La gioia gonfiava il petto di sua madre quand’ella lo guardava, quando lo vedeva camminare, quando lo vedeva sedere e alzarsi: Siddharta, così forte, così bello, che procedeva col suo passo snello, che la salutava con garbo così compìto. L’amore si agitava nel cuore delle giovani figlie dei Brahmini, quando Siddharta passava per le strade della città, con la sua fronte luminosa, con i suoi occhi regali, così slanciato e nobile nella persona.
Ma più di tutti lo amava l’amico suo Govinda, il figlio del Brahmino. Amava gli occhi di Siddharta e la sua cara voce, amava il suo passo e il garbo perfetto dei movimenti, amava tutto ciò che Siddharta diceva e faceva, ma soprattutto ne amava lo spirito, i suoi alti, generosi pensieri, la sua volontà ardente, la vocazione sublime. Sapeva bene Govinda: questo non diventerà un Brahmino come ce n’è tanti, un pigro ministro di sacrifici, o un avido mercante d’incantesimi, un vano e vacuo retore, un prete astuto e cattivo, e non sarà nemmeno una buona, sciocca pecora nel gregge dei molti. No, e anch’egli, Govinda, non voleva diventare tale, un Brahmino come ce ne son migliaia. Voleva seguire Siddharta, il prediletto, il magnifico. E se un giorno Siddharta fosse diventato un dio, se fosse asceso un giorno nella gloria dei celesti, allora Govinda l’avrebbe seguìto, come suo amico, suo compagno, suo servo, suo scudiere, sua ombra.
Così tutti amavano Siddharta. A tutti egli dava gioia, tutti ne traevano piacere. Ma egli, Siddharta, a se stesso non procurava piacere, non era di gioia a se stesso. Passeggiando sui sentieri rosati del frutteto, sedendo nell’ombra azzurrina del boschetto delle contemplazioni, purificando le proprie membra nel quotidiano lavacro di espiazione, celebrando i sacrifici nel bosco di mango dalle ombre profonde, con la sua perfetta compitezza d’atteggiamenti, amato da tutti, di gioia a tutti, pure non portava gioia in cuore. Lo assalivano sogni e pensieri irrequieti, portati fino a lui dalla corrente del fiume, scintillati dalle stelle della notte, dardeggiati dai raggi del sole; sogni lo assalivano, e un’agitazione dell’anima, vaporata dai sacrifici, esalante dai versi del Rig-Veda, stillata dalle dottrine dei vecchi testi brahminici.
Siddharta aveva cominciato ad alimentare in sé la scontentezza. Aveva cominciato a sentire che l’amore di suo padre e di sua madre, e anche lo amore dell’amico suo, Govinda, non avrebbero fatto per sempre la sua eterna felicità, non gli avrebbero dato la quiete, non l’avrebbero saziato, non gli sarebbero bastati. Aveva cominciato a sospettare che il suo. degnissimo padre e gli altri suoi maestri, cioè i saggi Brahmini, gli avevano già impartito il più e il meglio della loro saggezza, avevano già versato interamente i loro vasi pieni nel suo recipiente in attesa, ma questo recipiente non s’era riempito, lo spirito non era soddisfatto, l’anima non era tranquilla, non placato il cuore. Buona cosa le abluzioni, certo: ma erano acqua, non lavavano via il peccato, non guarivano la sete dello spirito, non scioglievano gli affanni del cuore. Eccellente cosa i sacrifici e la preghiera agli dèi: ma questo era tutto? Davano i sacrifici la felicità? E come stava questa faccenda degli dèi? Era realmente Prajapati che aveva creato il mondo? Non era invece 1’Atman, l’unico, il solo, il tutto? Che gli dèi non fossero poi forme create, come tu e io, soggette al tempo, caduche? Anzi, era poi bene, era giusto, era un atto sensato e sublime sacrificare agli dèi? A chi altri si doveva sacrificare, a chi altri si doveva rendere onore, se non a Lui, allo unico, all’Atman? E dove si poteva trovare 1’Atman, dove abitava, dove batteva il suo eterno cuore, dove altro mai se non nel più profondo del proprio io, in quel che di indistruttibile ognuno porta in sé? Ma dove, dov’era questo Io, questa interiorità, questo assoluto? Non era carne e ossa, non era pensiero né coscienza: così insegnavano i più saggi. Dove, dove dunque era? Penetrare laggiù, fino all’Io, a me, all’Atman: c’era forse un’altra via che mettesse conto di esplorare? Ahimè! questa via nessuno la insegnava, nessuno la conosceva, non il padre, non i maestri e i saggi, non i pii canti dei sacrifici! Tutto sapevano i Brahmini e i loro libri sacri, tutto, e perfino qualche cosa di più; di tutto s’erano occupati, della creazione del mondo, della natura del linguaggio, dei cibi, dell’inspirare e dell’espirare, della gerarchia dei cinque sensi, dei fatti degli dèi… cose infinite sapevano… Ma valeva la pena saper tutto questo, se non si sapeva l’uno e il tutto, la cosa più importante di tutte, la sola cosa importante?
Certo, molti versi dei libri santi, specialmente nelle Upanishad di Samaveda, parlavano di questa interiorità e di quest’assoluto; splendidi versi. « La anima tua è l’intero mondo »: così vi stava scritto. E vi stava scritto che l’uomo nel sonno, nel profondo sonno, penetra nel proprio Io e prende stanza nell’Atman. Meravigliosa saggezza stava in questi versi, tutta la scienza dei più saggi stava qui radunata in magiche parole, pura come miele. No, non si doveva certo far poco conto della prodigiosa conoscenza che qui era stata raccolta e conservata da innumerevoli generazioni di Brahmini. Ma dov’erano i saggi, dove i sacerdoti o i penitenti, ai quali fosse riuscito, non soltanto di conoscerla, questa profondissima scienza, ma di viverla? Dove era l’esperto che sapesse magicamente richiamare dal sonno allo stato di veglia l’esperienza dell’Atman, ricondurla nella vita quotidiana, nella parola e nell’azione? Molti degni Brahmini conosceva Siddharta, suo padre prima di tutti, il puro, il dotto, degno sopra ogni altro. Ammirabile era suo padre, nobile e calmo il suo contegno, pura la sua vita, saggia la sua parola, squisiti e alti pensieri avevano dimora dietro la sua fronte… ma anche lui, che tanto sapeva, viveva forse nella beatitudine, possedeva la pace, non era anche lui soltanto un uomo che cerca, un assetato? Non doveva egli sempre riattingere, come un assetato, alle sacre fonti, sacrifici, libri, conversazioni dei Brahmini? Perché doveva anche lui, l’irreprensibile, purificarsi ogni giorno dal peccato, affannarsi per le abluzioni, sempre da capo, ogni giorno? Dunque non era in lui 1’Atman, non zampillava nel suo cuore la fonte originaria? Eppure era questa che bisognava trovare: scoprire la fonte originaria nel proprio Io, e impadronirsene! Tutto il resto era ricerca, era errore e deviazione.
Tali erano i pensieri di Siddharta, questa era la sua sete, questo il suo tormento.