Ritiro di Quaresima: Caravaggio e Giuda

Milano il carcere e la luce

La nostra storia inizia in un carcere. Siamo alla fine del 1550 a Milano. Un periodo di grandi battaglie dove è normale avere qualche parente morto da soldato in una guerra. Ed è normale vedere gente armata girare per le strade, assistere a scontri.
Le carceri sono luoghi bui e puzzolenti. Soltanto dall’alto delle celle filtra della luce. Ma è una luce che resta in altro, sopra le teste dei carcerati, illuminando soltanto le pareti superiori e il soffitto. [01]

Il nostro protagonista è un giovane appena maggiorenne di nome Michele (Michelangelo), un giovanissimo pittore. All’ora non c’erano scuole di pittura, e i lavori si imparavano facendoli, direttamente dagli artisti. Da quando aveva 13 anni, Michele – nato in un paese di nome Caravaggio e per questo detto il Caravaggio – lavorava da un importante artista, per apprendere il mestiere: come si mischiano i colori, come si disegna su una tela, come si copia una figura umana…

Caravaggio ora non ha colori, né tele e certamente non potrà tornare nella sua bottega. E’ in carcere, perché ha litigato violentemente – non sappiamo con chi – forse con il capo della sua bottega (non sono un ragazzino! – mi immagino dicesse – non trattarmi da ragazzino!). Era un ragazzo dal carattere difficile, si racconta che un giorno abbia rovesciato un piatto di carciofi sulla faccia di un cameriere.

Caravaggio è spesso tra la gente di strada, frequenta cattive compagnie, diremmo che speso salta la scuola. Ma penso che lui sappia che il mestiere dell’artista si apprende non solo con i pennelli davanti a una tela. Caravaggio lo ha imparato moltissimo in prigione. Come? Guardando. Guardando cosa? Guardando la realtà. La realtà di cui Caravaggio è un innamorato. Vuole toccare e dipingere tutta la realtà e non solo le cose belle, quelle cose che i nobili del tempo gli commissionano. Non solo il ritratto “in memoria del nonno”, la “foto ricordo” ricordo dove tutti sono in posa. Decide di dipingere tutta la realtà, fino alla crudeltà di un carcere, di una strada puzzolente di periferia.
E la realtà in carcere è piena di piedi sporchi, mani unte, grate, corde, chiavi, volti di tristi, pallidi… e soprattutto c’è il buio. [02]
Caravaggio ha inventato il buio nei quadri, il nero. Prima nessuno aveva dipinto tutto questo nero. Si preferivano i colori accesi: l’azzurro del cielo, il verde dell’erba.. ma prima ben pochi artisti avevano visto il buoi del carcere. Prima la pittura era il colore. Ma Caravaggio scopre che senza il nero anche il colore è un nulla. Senza il buoi la luce non appare come luce, nella sua potenza. La realtà ci imbatte ogni giorno nel suo alternarsi di luce e notte. E lui dipinge anche la notte.
Anche la sua fede non è una cosa tutta colorata o solo luminosa: non è fatta di santi perfetti con la faccia da “oremus”. E non è neanche una speranza cieca che ci illude, come fosse una cosa che fede che c’è quando non si può sapere come vanno davvero le cose: si dice: quando non si può fare altro ci si affida… Caravaggio invece pensa alla fede come uno che mette un dito dentro alla realtà: lo sforzo di piegarsi e guardare tutta la vita, fino nelle ferite, tutta la quotidianità come ci appare. Senza dimenticare nulla.

Scappa a Roma. Bella vita, teatro, cesti di frutta

Il nostro artista è in carcere. Esce dopo qualche giorno, ma ancora dopo poco tempo lo troviamo di nuovo che scappa. In quel tempo l’Italia era divisa come in tanti stati e se uno usciva da uno stato poteva trovare rifugio in un’altro. Noi non sappiamo perché, ma appena ventenne, Caravaggio scappa da Milano e si trasferisce a Roma, lontano dalla polizia milanese che lo cerca e soprattutto vicino a moltissimi artisti.
Qui vuole dimenticarsi della prigione, delle risse, delle botte. Dopo poco tempo, diventa amico di un cardinale importantissimo. E qui inizia la sua fama.
Io mi immagino i complimenti dei nobile del tempo, che parlano tra loro dei quadri di questo artista come noi parliamo dell’ultimo calciatore, “Oh contessa, gli è piaciuto il mio nuovo quadro che si abbina con la nuova tappezzeria…”. Molti nobili iniziano a commissionargli dei quadri. Ma i quadri che piacciano a loro – senza tutto quel realismo –  e quando Caravaggio, quando ci mette del suo, viene contestato.
A Roma in quel tempo va di moda il teatro comico. Sono come delle fiabe dove si ride molto e si impara a ridere della vita. Ma Caravaggio è stato in Carcere e sa che si ride sempre solo per due motivi: o perché si è superficiali o perché non si ha altro modo per dire una verità della vita. Allora dipinge anche lui questa leggerezza della vita, allora era la metafora di un cesto di frutta, dei racconti mitologici delle feste, con il dio Bacco ecc. Ma, il ragazzo che offre la frutta, offre frutta bacata. Le foglie sono appassite. Il Bacco della festa è un Bacco malato (il suo autoritratto). E un ragazzo che sistema i fiori (simbolo di tutta questa bellezza, spensieratezza) mentre è lì – come quando ci mettiamo a posto il vestitino tutti attenti allo specchio – viene morso da un ramarro. [04-09]
Dipinge anche opere sacre, ma le dipinge con la stessa realtà delle scene del Vangelo: senza nasconderti nulla. E la realtà è che Gesù non era bello pulito e profumato, i suoi discepoli non erano nobili del tempo vestiti di pellicce. Dipinge la gente del popolo, ricordate: “Dio ha spogliato sé stesso assumendo la forma di servo… Umiliò sé stesso facendosi obbediente fino alla morte..”. Camminava per le strade, non girava nelle carrozze. [10-11]

Si innamora forse di molte donne. E forse per una donna, una notte uccide un nobile e anche lui resta ferito. Viene condannato a morte, con esecuzione istantanea: chiunque lo vede e lo riconosce può ucciderlo.
La sua vita cambia un’alta volta – d’un tratto. Troppo realismo. Ancora realismo: vuole dipingere i sogni e gli incubi che fa di notte, l’omicidio, la sua stessa testa tagliata. Inizia a immaginarsi la sua vita. Il corpo che ha ucciso. La persona che ha ucciso, lui stesso ucciso. [12-16]

Scappa. Scappa a Napoli, poi va a Malta e entra nell’ordine dei cavalieri per avere l’immunità. Ma viene scoperto ed è costretto a scappare di nuovo, va in Sicilia. Ritorna a Napoli dalla famiglia dei Colonna, fa per andare a Porto Ercole aspettando un documento del papa che lo graziava dalla condanna. Sul battello viene catturato.

La cattura di Cristo

Non è la prima volta che viene catturato. La cattura e la fuga è stata parte della sua vita. E c’è un quadro che rappresenta questa continua esperienza della sua vita (che è sempre anche la nostra): l’essere preso e braccato.
Si intitola la cattura di Cristo. Caravaggio che era stato fino all’ultimo in fuga, e fino all’ultimo preso dalle guardia dipinge la presa di Gesù. E’ il punto più vicino alla croce. Non ha mai dipinto Gesù in Croce che muori. Ma Gesù subito prima (oppure subito dopo, quando è deposto). A mio avviso, a differenza di molti, aveva capito che nella presa di Gesù, in quello che accade subito prima, si vede chiaramente – forse più chiaramente che sulla Croce, dove il sangue prevale – il mistero della nostra salvezza.
Caravaggio, uomo sempre in fuga, sempre catturato, vuole andare a vedere (toccare) cosa è accaduto lì, in quel momento nell’orto del Getzemani, dove è il Signore a essere preso.
Ed è così importante riuscire a vedere cosa accade realmente in questi minuti di storia che si dipinge anche lui nel quadro. Si dipinge come quel Tommaso che mette il dito nella ferita. Ora è quel personaggio in punto di piedi che sorregge un lanterna che fa pochissima luce (rispetto al volto di Cristo)  e sgrana gli occhi per vedere cosa accade.
Sa che la posta in gioco è alta: a seconda di quello che vedrà accadere lì, ne andrà della sua fede, sarà salvato, sarà perduto.
E per dipingere quello che accade lì si è letto tutto i vangeli. Abbiamo quattro racconti di questo episodio. Lui se li è letti tutti, li ha comparati, prende un particolare ora da uno, ora da un altro.
Nel vangelo di Giovanni c’è scritto che vennero a prendere Gesù con lanterne e torce, e si dice che ci sono delle guardie. Ecco le guardie, ecco una lanterna.
Nel vangelo di Marco si racconta che un ragazzo scappò via lasciando il mantello, nudo. Ecco a sinistra un ragazzo che scappa. La sua testa e il suo corpo sembrano uniti al corpo di Gesù. Ma lui scappa urlando a braccia aperte, mentre il Signore è con le mani giunte (segno di accettazione). Gesù è rivolto verso le guardie, il ragazzo che scappa non vede la scena, è rivolto altrove. E’ terrorizzato a braccia aperte, come di fronte a una cosa tremenda, ma non guarda la cosa tremenda, non la vede.
Gesù è in mezzo e gli permette di scappare. Tutti i personaggi sembrano appoggiarsi (sono inclinati) a Gesù che li sostiene, si puntella con le mani, è impassibile, come un muro di bronzo. Così protegge i suoi che scappano. Qui sta il senso di quella croce che Caravaggio non dipingerà mai (non ce n’è bisogno, lo vedi già da qui). Gesù è lì impassibile che blocca una cosa tremenda che poteva accadere. Poteva accadere un guerra di religione, si sarebbero potuti fare male in molti. E invece nel Vangelo di Marco riattacca anche l’orecchio a una guardia. Tutta la violenza che si sarebbe dovuta scagliare su tutti si scaglia solo su Gesù: lo vedi da questo quadro, come lui fa da contrafforte contro la massa delle guardie. E così lascia scappare i suoi. Ecco il senso della croce. La croce è una cosa cattiva e Gesù difende i suoi. Dice: via! Prendete me! Va da solo.
Quando allora diciamo quella formula solenne: è morto per i nostri peccati, la croce, la redenzione… ricordati quel gesto lì, perché quel gesto lì la illumina la cosa. Vuol dire, pur essendo lui puro come un angelo (e gli altri invece avevano ovviamente i loro peccati) si mise in mezzo, attirò il male e la cosa cattiva su di sé e loro li mise al riparo. Perché il suo insegnamento era: si da la vita propria per amore, non quella degli altri.
Gesù ha detto ai suoi più volte – tutti lo sanno – “chi non prende la sua croce e non viene dietro di me non è degno di me”, “beati voi quando vi perseguiteranno…”, “e chi si vergognerà davanti agli uomini anche io…”. Parole forti! Ricordate però un piccolo dettaglio: parole forti dette quando tutto va bene, quando siamo in pace. Perché questi devono incominciare a introdurre quella convinzione, quell’abbandono, quella forza che poi quando sarà il momento necessario, ciascuno con l’aiuto di Dio dovrà trovare in sé. Ma, quando viene il momento effettivo quando vengono le guardie, Gesù non dice ai suoi: miei prodi, ecco, aspetto che mi difendiate. Si mette davanti e dice: lascia stare, prendi me, sono io Gesù di Nazareth.
Abbiamo qui la rivelazione di questo fatto inaudito: che Dio quando viene il momento difficile e duro della vita, momento nel quale il suo buon diritto dovrebbe essere difeso ad ogni costo, non soltanto si tira indietro dall’idea di difenderlo ad ogni costo (perché se avesse detto: sì, sì, diamo battaglia, facciamo una bella guerra di religione, la finale del vangelo sarebbe stata diversa) ma si mette davanti ai suoi. Hai capito? Invece di dire: oh, allora io sono il figlio di Dio, il sono Dio… e il figlio di Dio va difeso e protetto ad ogni costo, datevi da fare, mettetevi in mezzo, invece di mandare  i suoi allo sbaraglio dice: prendete me. E se ne va solo sulla croce! Solo! Gli altri due se li trova lì, sono due ladroni, povere stelline, che non centravano. Ma va solo.

Si dice: nel sangue del figlio siamo stati lavati. Devi prenderlo alla lettera. Ti poteva capitare un Dio che pensava che invece appunto, saremmo stati redenti e lavati soltanto in uno spargimento di sangue planetario. E invece questo Dio dice: ogni volta che c’è uno spargimento di sangue qualcuno ha tradito Dio anche se lo sparge in nome di Dio. Perché la verità di Dio detta dal crocifisso si vedrà dove uno risparmia il sangue degli essere umani a costo di mettersi in mezzo lui e attirarlo su di sé. Magari anche se quegli altri se lo meritano. Vedi questa cosa che è già bella in sé.
Torniamo al ragazzo che scappa. Le guardie vorrebbero anche lui, se non ci fosse Gesù in mezzo. E allora pur di non portare a casa nulla (come nei film dove uno scappa e si infila in un cunicolo e i cattivi che inseguono e non ci passano si attaccano a tutti, cercano almeno di portagli via le stringhe), pur di cercare di pigliare qualche cosa, si prendono il mantello. Ecco come reinterpreta questo gesto di uno che scappa lasciando il mantello. Se proprio non posso prenderli, cerco di sfilargli quello che hanno addosso.
Ma arriviamo al centro del quadro. Perché è qui la cosa più incredibile che Caravaggio dipinge, dipingendo la sua storia. Cosa c’è in mezzo al quadro? Cosa è il soggetto principale? Gesù preso e baciato da Giuda?? A me sembra evidente che in mezza al quadro c’è il vero soggetto: un braccio di una guardia che “toccando” Gesù stringe in una morsa il povero Giuda che si attacca al Signore come l’unica cosa alla quale si può attaccare. Qui a essere braccato è il povero Giuda.
Nel vangelo di Matteo il racconto del bacio di Giuda è particolare. Gesù dopo essere stato baciato risponde: “amico, per questo sei qui?”. Amico! Aveva detto nel Cenacolo non vi chiamerò servi ma amici. Gli Apostoli sono diventati gli amici del Signore: buoni o no, generosi o no, fedeli o no, rimangono sempre gli amici. E qui è come se Gesù sapesse bene che a essere preso è Giuda. Il vero braccato è lui. La tristezza del volto è la tristezza per Giuda che è preso dalle guardie. I Vangeli usano questa formula: “il Satana si impossessò di lui”. E’ come se nel momento massimo del tradimento, dove il gesto più bello di un bacio viene trasformato nel suo opposto, anche il traditore fosse messo da parte dal Signore che è rivolto alle guardie e non a Giuda. Come se vedesse quella libertà dell’uomo che tradisce e anche di questo fosse in grado di dire: so che tu uomo fai quello che non vorresti fare, se non fossi catturato, stretto in un braccio di un’armatura.