Prima domenica di Quaresima

Is 57,15-58,4a; Sal 50; 2Cor 4,16b-5,9; Mt 4,1-11

Inizia il cammino di Quaresima e, se siamo qui, vorremmo anche che inizi un cammino di conversione. Ad ogni età, corriamo il rischio di vivere il nostro cristianesimo come un semplice “modo di comportarsi”, come un insieme di valori e di buona educazione, appiattiti, nella realtà, al modo comune di pensare o al buonsenso. Ce ne accorgiamo perché non percepiamo il bisogno di un Vangelo di salvezza.
Cosa ci può aiutare a desiderare una salvezza, a chiedere ancora una conversione? Il Vangelo ci porta a guardare a noi stessi. Se fosse la prima volta che lo leggiamo potremmo domandarci: che male c’è a sfamarsi quando si può? che male c’è a un po’ di riconoscimento? che male c’è al potere quando, oltretutto, è a fin di bene? Alla logica umana, questo cammino nel deserto appare inutile o forse anche dannoso. La logica umana direbbe: una dottrina vecchia, che spingeva verso l’astinenza per nascondere il fatto che è nel godere la felicità umana. Ma questa logica, che ci allontana dal prendere sul serio questa pagina, dimentica una cosa, una particolare stranezza dell’umano. Esiste qualcosa di non risolto in noi, di drammatico, di attraente e allo stesso tempo di insufficiente. La stessa parola “tentazione” rimanda a qualcosa di irrisolto, non totalmente evidente, qualcosa che ha un fascino, ma anche che sappiamo essere insoddisfacente alla nostra vita.

Vorrei approfondire questa “stranezza dell’umano” che è il motivo per cui le proposte del Satana non sono all’altezza dell’uomo e il motivo per cui Paolo parla di una dimora celeste che dobbiamo continuare a tenere a mente, oltre la “tenda” che viviamo. Di cosa si tratta? Si potrebbe dire questa questione in tanti modi diversi, ma io la dico così: dai 12 anni in avanti, se uno è serio con sé stesso, ognuno di noi si accorge che ha un desiderio che non è interpretabile come semplice appetito. Un desiderio che non è un semplice bisogno di qualcosa (cibo, sesso, potere, successo…). Faccio un esempio: ho uno studente che desidera moltissimo un motorino e me ne parla tutte la volte che finisce la lezione. Io lo prendo sul serio e lo ascolto e capisco come la sua felicità dipenda da questo sogno. Il ragazzo dunque è abitato da questo desiderio. Vuole il motorino? Sì… ma io dico anche “no”. La risposta non è solo “sì”, lui stesso sa benissimo che quando lo avrà vorrà anche altro. Dunque “sì, ma anche no”. No, perché poi servirà altro. No, perché non è sicuro che quel problema sia davvero “il” problema. Lo stesso vale per la ragazza, per il lavoro. Vorremmo un lavoro migliore? Sì, è innegabile. Ma, “anche no” perché ci sarà dell’altro.

Due esempi della letteratura descrivono bene questa “fame” inquieta dell’uomo. Sono due immagini estreme perché devono mettere in evidenza qualcosa che è comune a tutti. Una è la figura del don Giovanni che non è un personaggio felice come ci aspetteremmo. E’ interessante che nell’elenco sulle sue donne, Leporello dice: “in Italia sono… in Francia sono… e in Spagna son già 1003“. Molti studiosi si interrogano come mai proprio questo numero “1003”, così strano, e alcuni dicono che sia il numero dell’infinito. Penso abbiano ragione, perché il don Giovanni va a cercare dove non potrà mai trovare. Se ricerchi nel possesso o nella fame di qualcosa la risposta al tuo desiderio, avrai sempre bisogno di cambiare oggetto al desiderio. Diceva uno psicologo: “l’essenza dell’oggetto è il fallimento”. Su questo fatto si basa il successo del marketing. Anche il desiderio sessuale, protetto dalla morale dalla sua mercificazione, segue oggi appieno la stessa regola di cambio dell’oggetto, perché fissandosi solamente su una donna o su una scena non è in grado alla lunga di continuare ad attivare il desiderio, lo si vede per esempio nel consumo moderno della pornografia dove si è portati a cambiare continuamente filmato.
Un secondo esempio dalla letteratura è il racconto “La lupa” di Verga. La descrizione di una donna sempre affamata di uomini, una figura mostruosa, che vuole portarsi tutti a letto, persino il marito della figlia. E’ una figura divorata da questo suo desiderio insaziabile e mortale. Perché in fondo anche la lupa non sa cosa vole e va a cercare dove non potrà mai trovare.

Insisto nel sottolineare che l’uomo è strano. Vuole una cosa, pensa sia essenziale, ma poi non la vuole più, oppure vuole addirittura l’opposto. E siccome non sa cosa vuole, tendenzialmente cerca quello che vogliono gli altri. Come nell’esperienza dei bambini: ci sono dieci giochi che nessuno vuole, poi uno ne prende uno e tutti vogliono quello. Non è così?
Per questo l’uomo, nella sua vita, non sarà mai riducibile alla sua fame. Anche l’esperienza del cibo, del mangiare, lo dimostra: non è vero che l’uomo mangia soltanto perché ha fame. Ho visto passando davanti a un ristorante di lusso il prezzo di un tiramisù. C’era scritto nel menù: 22,5€. Cosa fa uno che mangia un dolce da 22,5€? Ha fame e si sazia? No, come direbbero i miei ragazzi di scuola: “prof, quello se la tira!”. Perché mangia sì, ma ha anche bisogno di altro. E –per sottolineare la stranezza dell’umano– ciò di cui sente il bisogno è anche spesso in contraddizione: vuole affetto, ma anche autonomia, è violento ma anche si nasconderebbe, cerca un amico ma anche ha bisogno di solitudine e autonomia ecc.

Accorgersi di questa stranezza e del fatto che non siamo riconducibili alla nostra fame, alla soddisfazione di un desiderio, come invece io credo accada negli animali, questo è il presupposto per capire il senso delle rinunce che opera il signore Gesù. E’ duro da credere, ma non è nella sazietà a dei desideri che si realizza la vita vera dell’uomo. Gesù abita un deserto, una fame, una povertà, una mancanza. Non che questa mancanza sia il suo scopo. Verrà poi chiamato “mangione e beone”, verrà rimproverato perché non praticava il digiuno come i discepoli di Giovanni, tirerà fuori il pane dai sassi per i cinquemila e una seconda volta per la folla che lo seguiva da giorni — e lì non sarà una tentazione. Eppure abbiamo tutti l’impressione che quel pane moltiplicato non era opera di un godimento per sé, ma sempre la condivisione amicale con gli altri. Perché anche Gesù deve sperimentare, all’inizio del suo cammino, che la mancanza non è il tutto della vita e che la vita sazia senza bisogni è l’illusione di una autosufficienza che porta alla morte. E la fame può essere non il segno di una maledizione, ma lo strumento della condivisione della vita.

Si può anche non digiunare il primo venerdì di Quaresima, perché –come dicono alcuni– ormai ci siamo emancipati. Si può. Si può digiunare perché ci si sentirebbe in colpa a non farlo, per via di una educazione particolarmente morale oggi quasi scomparsa. Si può anche digiunare nel proprio atto di orgoglio, per sentirsi veri cristiani, per riaffermare la nostra identità (lo facevano anche i farisei). Oppure c’è il digiuno di Cristo: condividere, non a parole, la vita di chi davvero il pane non ce l’ha perché il mistero dell’uomo è la relazione e non la sazietà. E questo spesso ce lo dimentichiamo. Imparare a stare da soli nel deserto per sapere che soli non si è mai davvero. Il mondo non cambia, ma quando mi capiterà nella vita di incrociare, sotto la porta di casa o nella corsia di un ospedale o in un viaggio remoto, la vita di un uomo che non ha pane davvero o che vive solo davvero, perché vedovo o perché orfano… allora sentirò quella persona in modo diverso (non è solo un discorso ma un’umanità umana diversa, un’empatia) e non lo penserò come lo sfortunato di turno che per fortuna non mi assomiglia. Così infatti ha fatto il Signore Gesù che ha preso sul serio i nostri bisogni fino a renderli suoi, rifiutando gli idoli che promettono di saziare i desideri, senza un tesoro geloso da custodire per sé. Di questa umanità nuova abbiamo davvero bisogno.