Presentazione del Signore

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Un grande artista olandese del ‘600 –Rembrandt– ha terminato la sua vita lasciando nel suo studio, su un cavalletto, proprio il ritratto di Simeone mentre abbraccia Gesù bambino. Un vecchio con una lunga barba, dietro la profetessa Anna, senza traccia del tempio o di Maria e Giuseppe, i personaggi emergono da uno spazio senza connotazioni di tempo. Le mani enormi di Simeone che sorreggono in un fagotto un neonato, come in preghiera, mentre il volto mostra gli occhi già socchiusi, come colti nell’istante appena successivo alla folgorazione, ormai in pace.

Alcuni grandi artisti hanno spesso lascito un capolavoro simbolo di tutta la loro esistenza, proprio alla fine della vita, lavorandoci fino all’ultimo. Così Michelangelo che fino al giorno prima di morire lavora alla sua Pietà, così Rembrandt che lascia questo capolavoro sul suo cavalletto prima di andarsene. E spesso queste opere contengono qualcosa che richiama tutta la loro esistenza. Rembrandt ha avuto una vita molto difficile: un rapido successo folgorante, poi il declino, la morte della moglie amata, la morte di molti figli, una seconda relazione disastrosa, il fallimento totale con la vendita di tutta la sua casa con tutti i suoi averi, una terza relazione ancora problematica. Alla fine, cinquantenne gli rimaneva solo un figlio amatissimo, Tito, ritratto molto volte bambino, poi adolescente e poi adulto. Ma proprio quando Tito si sposa, viene infettato dal morbo della peste e muore in pochi giorni.

Una vita così non si sarebbe potuta concludere che con una imprecazione. Come è possibile concludere la propria vita con l’immagine di Simeone che dice: “ora posso andarmene in pace anche io perché ho visto la salvezza”? Quale fede deve avere avuto un uomo -o cosa deve aver pensato- per poter vivere una vita così senza imprecare? Del resto, quando Rembrandt morì, nell’inventario dei beni della sua casa, è segnato un solo libro: la Bibbia.

Un uomo di fede vissuta che è stato spogliato di tutto: del successo, della carriera professionale, di molti amici che l’hanno abbandonato e degli affetti più cari. Spogliato di tutti, alla fine dell’esistenza sembra voler dire a Dio: prendi ciò che vuoi ormai, prendi anche la mia vita, perché tanto ho visto qualcosa che mi basta, ho quanto serve per non disperare.

È questo anche per noi un tema importante: saper lasciare, saper mollare la presa sugli altri e sulle cose. Proprio noi che viviamo relazioni così fragili, pare fatichiamo molto a “lasciar andare”, a “perdere” chi amiamo, anche quando tutto questo è necessario per il bene di chi amiamo, oppure anche quando sembra inevitabile. I genitori faticano molto -davvero una spada trafigge l’anima- a veder “andare via” i propri figli diventati adolescenti e poi adulti, a non fare più le vacanza e con loro, a permettere a loro di sbagliare. È molto duro mollare quella presa. Così è difficile anche per i ragazzi lasciare il nido in fondo sicuro di casa, o lasciare quegli amici che ci facevano da protezione anche senza darci nulla di buono, ma limitando esperienze belle. Oppure è difficile lasciare il nostro ruolo, il nostro lavoro: ci lamentiamo una vita per la pensione, ma poi spesso è dura andarsene. E, in generale, è davvero difficile diventare anziani, lasciare spazio ad altri tirandosi indietro, perché si sa che è un prepararsi a lasciare qualcosa di più.

Come è possibile fare tutto questo? Come si impara a lasciare andare? Simeone sembra suggerire che si tratta di fede, ovvero di ciò che crediamo e vediamo nel futuro. Se pensiamo che nel futuro non ci sia nulla di buono, se non abbiamo visto alcuna luce, ma pensiamo solo all’incertezza e al declino, ci attaccheremo sempre più a quelle poche cose che ci sono sembrate buone, senza riuscire a staccarcene. Ma se intravvediamo altro, se il domani contiene una luce di vittoria e non un nero di sconfitta e solitudine, allora possiamo mollare la presa.

Mi colpisce che Gesù -che non ha avuto una vita facile- quando c’è la crisi, quando molti di quelli che lo seguivano se ne vanno perché parla troppo duro e a loro bastavano i miracoli, allora noi ci aspetteremmo che si attacchi agli amici, invece anche a Pietro è capace di dire: “non ti trattengo Pietre, se vuoi andare vai”. È un modo di voler bene, carico di una libertà che fa sparire ogni sospetto di una amicizia nata solo come compensazione, nata perché non si è capaci di stare soli. Gesù sa voler bene agli altri senza trattenerli solo per sé e sa dare la sua vita, sa lasciare addirittura questo mondo, sapendo di non perdere nulla in realtà. Come per Simeone, sotto le palpebre ormai socchiuse, la certezza di aver vinto e di aver visto ciò che supera ogni apparente sconfitta.