Natale – Messa della Vigilia

Is 7,10-16 Sal 2 Eb 10,37-39 Mt 1,18-25

Mi accorgo che c’è qualcosa in questa festa che non riesce mai a essere detto o capito del tutto. Non solo agli altri, ai nostri figli o in una predica, ma neanche a noi stessi. Se non ci siamo rassegnati a festeggiare il Natale come semplice convenzione sociale, c’è sempre qualcosa di irraggiungibile nel nostro desiderio di capire il motivo di questa festa, il perché siamo qui ora.
E allora sono contento che ogni anno lo festeggiamo. Perché è come un innamorato che ha il bisogno continuo di dire alla sua sposa “ti amo”. Da dove gli viene questo bisogno? Lui sa che queste parole sono troppo banali e vuote per dire quello che prova realmente, forse proprio per questo è costretto a ripeterle. Si ripete ogni anno quello che ogni anno non può essere consumato o esaurito del tutto. Noi ripetiamo il Natale intuendo che in questa parola c’è molto di più di quello che ogni anno sappiamo decifrare. Eppure, non di meno, ci affascina, ci interessa. E sappiamo ce ne sarà per ogni anno a venire.
Ogni altro pensiero, preoccupazione della vita, che ci distrae da questo stupore e da questa mancanza (da questo vangelo) – perché ci fa sentire bravi per la cena che facciamo o sazi per i regali che abbiamo comperato o riceviamo, per la piccola felicità acquistata – svuota il cristianesimo, svuota l’umano, ci trasforma in uomini privi di parole abbastanza grandi (e ricche e profonde, da non esaurirsi in quella frazione di tempo che si scartano i regali) per parlare della vita e dell’uomo.
I ragazzi, senza saperlo, sono i più sensibili a questo. La loro voglia di vita o quella sorta di malinconia che gli si legge addosso (il loro non voler più far nulla o la loro intraprendenza), dipende quasi sempre dalle nostre parole, dalla nostra cocciutaggine e tenacia ad aver assimilato il mistero di questa vita, di questa nascita.
Per chi si è lasciato affascinare da questo Vangelo, il senso del suo stupore e del suo fallimento (lo stupore della sua vita) non gli viene dalla grandezza dei cieli, dall’infinito, dal cielo stellato.. ma dal semplicissimo fatto che Dio abbia preso in così grande considerazione la vita dell’uomo. Questo era quello che non mi aspettavo fino in fondo (e che mai mi stancherà): che Dio abbia così tanta attenzione alla vita dell’uomo, da non reputarla una cosa da nulla o una cosa mal fatta come a volte mi appare.
Io per vedere Dio devo abbassare lo sguardo sulla vita di un bimbo, che nasce da donna, piange e impiega 30 anni nel silenzio di Nazareth, nella più normale vita dell’uomo che neanche merita di essere raccontata (anche se è quella del Figlio), per assimilare fino nel midollo cosa sia questa vita. E se voglio sapere come mi vede Dio, cosa pensa Dio, devo guardare soltanto questo uomo Gesù e come lui guarda i suoi simili.
Questo deve fare Giuseppe. Come nel quadro. A differenza degli uomini dietro e anche di quel ragazzo che si è staccato dal gruppo e guarda in alto, Giuseppe – anziano – vede il Signore. Ma per farlo non deve alzare il suo sguardo nel cielo ma abbassarlo sulla vita di questo uomo.
Questo mi lascia ogni anno affascinato e sconcertato. Che a Dio sia importato così tanto della vita (banale e strana come essa mi appare) da farla sua una volta per tutte.
A Giuseppe è successo in un sogno. Perché mai, da soli, si poteva arrivare ad avere tanta fiducia nella vita dell’uomo. Serve una notte, serve un sogno, per non rinunciare del tutto a credere che in questo bambino che piange è la vita stessa di Dio. Per non rinunciare a cercare nelle pieghe della nostra vita la cura e la tenerezza di Dio.