Meditazione per il venerdì Santo

Spesso mi domando cosa c’entra la morte di Gesù con la mia vita. Quest’anno me lo sono chiesto diverse volte. Ascoltando la Passione secondo Giovanni di J.S. Bach sentivo frasi come: “il suo sangue mi ha salvato”. Sono frasi di una spiritualità che non mi è subito evidente. Spontaneamente mi verrebbe da dire che il “suo sangue” è solamente il suo. Tuttavia, senza fare grandi riflessioni filosofiche mi viene in mente che quando voglio bene a una persona non importa quanto tempo sia passato o quanta distanza ci sia da lei. Subito capisco che la misura con la quale mi colpisce questa morte è la misura con la quale sono capace di voler bene a questo uomo della storia. Perché è anche vero che non è la prima volta che sentiamo parlare di Lui, ma ormai da tempo leggiamo la sua parola, lo preghiamo, gli parliamo, lo conosciamo ecc. E’ anche solo l’affetto che nasce per a un uomo che si frequenta da anni.

Forse questo però non basta, e mi domando ancora cosa mi lega al mistero della morte di Cristo. Verrei proporre due spunti.
1) Quest’anno ho accompagnato tante sofferenze e tanti dolori. Non per merito mio ma per circostanze sfortunate della vita. Papà scomparsi improvvisamente, malattie gravi che non guariscono, famiglie che si rompono, preti che lasciano il loro ministero… Così quest’anno ho dovuto riflettere molto sul male e sul dolore umano. Ho capito una cosa: il dolore umano non è un semplice fastidio. C’è una cultura che tende a trattare il dolore come fosse un fastidio evitabile, come se fosse derivato dal fatto che non siamo ancora perfetti, non abbiamo ancora le medicine giuste o un’organizzazione adeguata… ma come se si trattasse in fondo di un fatto evitabile, di un fastidio risolvibile. Non è così! Non è così sia per chi fa il bene sia per chi compie il male (e a volte senza accorgersene). Il dolore non è un fastidio evitabile, ma un mistero nel quale siamo immersi e dal quale non possiamo sfuggire. Si diceva ai ragazzi che chi “semina vento raccoglie tempesta”, ma la vicenda di Cristo mi dice invece che anche chi non semina vento raccoglie tempesta. Il dramma è qui.
Neanche due fidanzati o due ragazzi che provano a volersi bene, pur se facessero tutte le cose giuste, possono pensare di astenersi dal dolore, subito o inflitto a vicenda e non solo per i propri errori. Se pensassero di “non voler fare del male a nessuno” non inizierebbero neanche ad amare. Insomma, la vita non è per impavidi. Gesù deve scontrarsi con il male, deve portarlo e non può evitare a chi lo ama di attraversarlo. La sua morte non è un incidente di percorso, ma la condivisione di ciò che è “inevitabile” ad ogni uomo, anche a quelli che vogliono il bene. E forse sopratutto a loro.
Capisco che la parola più adeguata a capire la sofferenza, per chi non volta la faccia dall’altra parte facendo finta di nulla, è la parola “mistero”. Il dolore rivela la fragilità misteriosa della nostra esistenza, mi inserisce in un mistero più grande, forse anche quello di Cristo.

2) La seconda cosa che ho intuito quest’anno è che questo Mistero deve anche essere purificato dalle nostre lamentele. Ovvero, che non si può subito sacralizzare il dolore. Non tutto il mio dolore, le mie frustrazioni, le mie ansie… non tutto è subito la croce di Cristo. C’è una facile “sacralizzazione” del dolore che permette di dare sensi truculenti a ciò che invece resta in sospeso. Accade quando subito, per tutti i miei mal di denti o per tutte la mie povertà, dico “è la Croce”. E’ troppo facile sacralizzare subito il dolore. Invece, le mie povertà sono anche solo le mie povertà. E talvolta siamo noi stessi a rovinarci la vita, dove la croce del Signore non c’entra per nulla.

La croce del Signore va purificata dalle nostre lamentele su tutto. La croce che abbiamo di fronte è invece, penso, una cosa seria. Quando accade quando ti tocca nella carne. Avviene improvvisa e inaspettata e ti fa dire: “io cosa ci sto a fare qui” oppure “forse ho sbagliato tutto” forse “Dio davvero mi hai abbandonato” o “Tu non ci sei neanche”. La Croce non viene per qualsiasi piccola frustrazione. Invece, è fatta sopratutto dell’impotenza schiacciante di fronte a chi sta male. La ferita più grande la subiamo quasi sempre davanti al dolore degli altri. Per l’amico che non guarisce e diresti “perché a lui Signore?” Oppure, per il numero di orfani e di ragazzi che vedi persi nella vita… persi e ti domandi “cosa posso fare”. Non solo i tuoi figli, ma anche i figli degli altri: i tanti, troppi che incontri e ti piegano in due perché sai che devi dire: “Signore, cosa posso fare?”. Come quando vedi che un ragazzo di nove anni piange la separazione dei suoi e sai che tu non potrai mai fare nulla. Nulla ed è insopportabile.

Liberato dalle mille piccole lamentale, a volte intuiamo cosa sia la croce del Signore e il “silenzio di Dio”, anche oggi. Allora lo capisci al vole che il mistero della sua morte e della lontananza di Dio ha anche a che fare con te. Quando non è ridotto alla routine delle nostre crisi quotidiane. Allora, il peso di questi giorni appare tutto nel suo rimanere in sospeso. C’è l’attesa di qualcosa, perché alla croce del Signore non c’è una possibile risposta nostra. C’è l’attesa che Dio faccia qualcosa e basta. E lo faccia in fretta! Abbandonarsi a questa attesa, sapendo che c’è un punto dove solo il Padre deve e può fare qualcosa, è quello che da sempre chiamiamo “fede”.