IV Domenica dopo Pentecoste

Gen 18,17-21;19,1.12-13.15.23-29; Sal 32; 1Cor 6,9-12; Mt 22,1-14

Mi fermo su due aspetti di queste letture. Cercando un filo comune tra le prime letture direi così: per chi scrive la Bibbia il male e il bene esistono, sono riconoscibili e non portano a nulla se non alla distruzione. Nel linguaggio mitico della pioggia di zolfo, nel linguaggio apocalittico (di Paolo e di Gesù) del mancato ingresso nel Regno. Giovanni direbbe: il male è tenebra e sebbene la luce sia venuta nel mondo, la tenebra non riconosce la luce (nel Prologo): male e bene sono così diversi da non potersi neanche parlare.
Questa era una idea solida per chi scriveva la bibbia. Il concetto di “onnipotenza di Dio” era semplicemente un modo per ridire questa cosa: che l’unica cosa che genera e non distrugge è il Bene e viene da Dio (solo il Bene è potente, nel senso che può, fa, perché il male alla fine distrugge e basta).

Mi permetto di dire che non so se anche noi pensiamo così. In tante circostanze della vita –mi verrebbe da dire– spesso non il grande male, ma il male piccolo e sopportabile smette di essere visto come male. Io ricorderò sempre un uomo che ha passato la vita a curare i tossicodipendenti che parlando ai giovani e ai loro genitori diceva: insegnate a chiamare il male male anche quando vi costa fatica, insegnate a dire non al male che scelgono i vostri figli anche quando vi costa un litigio.

Non è un caso che in uno dei romanzi più venduti di questo secolo, nel Primo volume del Romanzo di Harry Potter, proprio nel finale del racconto, proprio nella battaglia ultima, il cattivo insegnante Raptor confessa il momento nel quale è stato stregato dal cattivissimo Voldemort e dice:

“Lo incontrai all’epoca in cui giravo il mondo. Allora ero un giovanotto scervellato, pieno di idee ridicole sul bene e sul male. Il Signore Voldemort mi ha dimostrato quanto avessi torto. Bene e male non esistono. Esistono soltanto il potere e coloro che sono troppo deboli per ricercarlo…”

Sodoma viene distrutta e Paolo ribadisce nella sua lettera “cosa non va bene”, anzitutto perché il primo modo di mostrarsi del male è cercare di non apparire tale, di nascondersi, di diventare cosa piccola e relativa.
E’ sotto gli occhi di tutti che il “mi sento” è diventato più forte di ciò che “è”. A parte casi eclatanti, quante volte sentiamo ragionare così: “se mi sento è giusto, se non mi sento è sbagliato” e il bene e male hanno smesso di esistere, sono di nuovo relativi.

Uscire dal “mi sento” e incontrare una verità nella vita che –come diceva qualcuno– “è a caro prezzo”. A caro prezzo perché è un bene da fare o un male da evitare che a volte “non sentiamo” per nulla e per nulla “ne avremmo voglia”. Agostina diceva: per scoprire il tuo bene spesso dovrai “agere contra”, andare contro quello che spontaneamente ti verrebbe da fare. Tutto all’opposto della nostra mentalità per cui: “se ti senti è giusto”. Lo tradisce fino in fondo il nostro linguaggio: quante volte chiediamo non “cosa fai? cosa stai facendo di bello?” ma “come stai? come ti senti?” Come ti senti in questa scelta o in quest’altra… Quanti esempi potremmo fare…

Il secondo pensiero va a questo Vangelo. Cosa è questo “abito nuziale” che disgraziatamente non porta quell’uomo indicato dal Signore?
Qui il tema non è “il bene e il male” come se l’abito nuziale fosse l’uomo che si è comportato bene. Perché a questo banchetto arrivano tutti e dice apposta: “quelli che trovarono, cattivi e buoni”.
Il tema è invece (per chi riscrive il Vangelo) la Chiesa. E capiamo subito: non è forse vero che qui ci sono tutti (senza differenza di sesso, nazione, età, razza…) e che la differenza non è che tra noi ci sia uno più bravo dell’altro. Dico sempre che tra di noi ci sta anche il peggiore abitante di Sodoma.
Ma con una differenza: l’abito nuziale. L’abito nuziale è il segno unico che ho bisogno dello sposo e della sposa. Che ne ho bisogno. Punto. Che di questo Dio io ne ho bisogno proprio perché sono uno che è stato trovato, non poi così buono. Diceva un amico, cosa ci accomuna come cristiani? lui diceva così: che ognuno si è accorto che c’è stato uno sguardo nella sua vita che gli ha voluto bene ed è andato a fondo di questo. Questo affidamento che abbiamo scoperto e che ci tiene in vita noi diciamo essere l’abito nuziale.

Chiudo dicendo: oggi senza abito nuziale (la fede cristiana) è difficilissimo anche riconoscere bene e male. Perché senza “abito nuziale” si faranno tanti buoni propositi ma non si sarà mai in grado di realizzali.
Diceva Bonhoeffer:

«La strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni». Questo detto che si ritrova nei paesi più diversi, non proviene da una stupida saggezza mondana, bensì rivela una profonda intelligenza cristiana. Chi con la fine dell’anno non sa fare niente di meglio che compilare un registro con quello che di cattivo ha fatto in passato e decidere, d’ora in poi – ma quanti “da ora in poi” sono già passati! – di iniziare il nuovo anno con propositi migliori, è ancora nel paganesimo fino al collo. Costui pensa che i buoni propositi facciano da soli il nuovo inizio, ovvero che egli possa iniziare di nuovo quando vuole. E questa è una pessima illusione; è soltanto Dio che può iniziare nuovamente con l’uomo, se gli piace, ma non l’uomo con Dio. A un nuovo inizio l’uomo non può assolutamente arrivare, bensì può soltanto pregare per esso. Dove l’uomo è chiuso in sé e vive per sé soltanto, lì vi è sempre e soltanto il vecchio, il passato. Soltanto dov’è Dio, è il nuovo; e l’inizio, Dio, non lo si può comandare, lo si può soltanto pregare. Ma l’uomo può pregare soltanto se capisce che non può fare ciò che sta ai suoi limiti, che un altro deve iniziare.”