IV domenica dopo Pentecoste

Gen 4,1-16; Sal 49; Eb 11,1-6; Mt 5,21-24

«Dov’è Abele, tuo fratello?» è la domanda che Dio rivolge a Caino. Poche pagine prima Dio aveva rivolto ad Adamo una domanda del tutto simile: «Dove sei?». Mi stupisce questo modo di Dio di chiedere all’uomo dove sia, di chiedergli conto del suo agire, di sapere di lui, cosa ha fatto, se si è perduto… Perché solitamente siamo noi a chiedere a Dio dove sia, a chiedergli perché non lo sentiamo vicino o perché non si fa vedere, come se questa fosse la vera domanda. Come se la vera questione fosse di “trovare Dio”. Qui invece accade il contrario: la vera questione è ritrovare noi stessi e ciò che ne abbiamo fatto della nostra vita. Il punto è vivere da uomini, all’altezza di noi. Dove sei? sei felice? giri ramingo e fuggiasco? dove stai andando? cosa ne fai di ciò che hai e degli amici che hai affianco?

In questi sei anni ho capito che la differenza tra “studiare” e “capire”, tra “guadagnarsi da vivere” e “lavorare”, tra “amare” e “avere una donna”… non sta nella fortuna di avere trovato ciò che ci piace davvero, ma nella capacità di avere dato un senso pieno a quello che viviamo. E questo senso pieno è sempre un dialogo con Dio, una risposta a chi ci ha dato questa vita.
Nessuno di noi ha deciso di venire in questa vita, di fare certi incontri, di nascere in una determinata famiglia. Nessuno ci chiederà conto di questo, ma ciò che è decisivo è come rispondiamo a ciò che noi non abbiamo deciso. Quando dodici anni fa sono entrato in seminario, la questione della mia vocazione si è posta esattamente in questi termini: cosa ne fai degli incontri che hai ricevuto? Come rispondi a ciò che hai avuto la fortuna di vivere e di ricevere?
La nostra vita vera nasce come risposta a una domanda che nel fondo percepiamo tutti: “cosa ne fai della vita che ti è stata data?”. Senza questa domanda non c’è vocazione, non c’è vita autentica né la possibilità di dire un incontro vero con Dio.

In sei anni che sono prete posso dire che spesso ho percepito questa domanda: “dove sei finito? cosa ne hai fatto di te?”, ma anche sopratutto una seconda domanda: “cosa ne hai fatto di quelli ai quali vuoi bene?”, “dove li hai portati?”… La domanda della propria responsabilità è sempre una domanda che ci salva e che ci rimette in carreggiata (non è mai una domanda di condanna). A volte me la sono posta io stesso, altre volte sono stati gli amici a pormela. La routine delle cose rischia sempre di farci perdere il senso e la strada di ciò che facciamo che è in fondo la nostra relazione con Dio.
A volte, non ho potuto che riconoscere di essere anche io “ramingo e fuggiasco”. Esistono momenti nei quali in onestà non possiamo che dire di esserci persi, di vagare sperando solo di incontrare qualcosa. Eppure questo non è tutto. Perché anche là dove si riconosce di essersi persi, di essersi distratti, di essere stati deboli… pure rimane un segno della nostra dignità. La tradizione vuole che il segno di Caino della sua intoccabile dignità, anche se peccatore, fosse una compagnia, un cane fedele che non lo lasciava solo, non un semplice segno o oggetto.

Anche quando mi sono perso pure non sono mai stato abbandonato. Così posso dire: “il Signore c’è” e poter dire –nonostante me (nonostante i miei tradimenti e il mio essere Caino)– “il Signore c’è nella mia storia” è la cosa più bella che io possa dire agli altri. Pensateci: cosa potremmo dire di più grande e di più bello se non “il Signore c’è”. Cosa avremmo da dire di più importante ai nostri figli? Forse una bella carriera, una bella casa, saper bene l’inglese o qualsiasi altra cosa varrebbero il poter dire “il Signore c’è e non mi ha abbandonato”? Cosa potrebbe dire un uomo di più bello di questo?