IV domenica dopo il martirio

Link alle letture.

Due scene di queste letture mi sembrano ancora attuali. La prima è quella di Elia che fugge nel deserto per un giorno di cammino, quello che basta per assicurarsi la morte. Si pone sotto una ginestra –la stessa pianta che aveva visto piangere il piccolo Ismaele– e invoca su di sé la morte: “non sono migliore dei miei padri”. Una delusione, un male di vivere, diremmo oggi: “una depressione”. Certamente, la sconfitta per aver mancato alle proprie aspettative, l’incapacità di rispondere al bene ricevuto (dai padri). Sono cose che forse non accadono più? Sono forse solo storie vecchie della Bibbia? Non mi pare. Non c’è un’epoca come la nostra dove il “male di vivere” sembra ingabbiare molti. La tristezza che invade alcuni, magari per cose da poco, eppure che diviene una voce forte, una depressione, talvolta fino al pensiero che la fine sarebbe la cosa migliore. Come Elia, il più delle volte, si ha poi solo il coraggio di trascinarsi nel proprio deserto e rimanere inerti sotto la propria ginestra. Descrizione ancora attuale dell’uomo.

Mi sono chiesto: cosa salva Elia? Cosa gli permette di ricevere forza. La prima volta il messaggero, il passante casuale, fallisce. Occorre una seconda volta perché Elia si accorga che quella focaccia e quell’otre di acqua vengono da Dio: sono un segno per lui. Già, un po’ d’acqua e una focaccia, sembra che occorra proprio nulla! Penso esista oggi questo paradosso: abbiamo molto di più di pane e acqua (che mai sono bastati all’uomo, come il marketing lo sa benissimo). Abbiamo cibi raffinati, vini pregiati… abbiamo case bellissime, figli laureati, vacanze stupende… eppure tutto questo non vale quella focaccia e quell’acqua. Eppure tutto questo non è in grado di tenerci lontani dal male di vivere! Anzi!

Serve nulla all’uomo, basta un bicchiere d’acqua, purché sia capace di coglierlo come segno di un bene per sé, il segno che Dio non ti abbandona. Per davvero però. Sarà che, distratti da tutto, ci siamo dimenticati di quello che ci è fondamentale, ci siamo scordati di leggere dei segni… e dunque più nulla ci basta? Sarà per questo che il nostro male di vivere oggi aumenta così tanto?

 

La seconda scena che mi sembra attuale la traggo dal Vangelo. Gesù non viene creduto come pane dal cielo, viene rifiutato nel suo dono di farsi “cibo” e carne per il mondo. Mi chiedo: non sarà che questo rifiuto non riguarda solo i farisei di un tempo, ma tocca alcune corde profonde di noi? Perché facciamo così fatica ad accettare questo cibo? Sarà davvero solo per questioni intellettuali, per una fede che fa fatica a “credere”? Non penso. Penso che alla radice della nostra fatica di ricevere il corpo del Signore stia anche la fatica stessa a lasciare di essere amati, a permettere che si doni proprio a noi. La realtà è che nella vita di ogni giorno è spesso più facile abbracciare che lasciarci abbracciare. Gli anziani che devono rinunciare alla propria autonomia sanno la fatica di accettare un bene che non può essere ricambiato. Mi chiedo: non è che facciamo fatica a permettere che sia il Signore a volerci bene per davvero, senza che gli importi di quanto possiamo ricambiare o essere all’altezza? Non è questa una grande difficoltà? Assistendo alcune persone povere (ragazze madri, persone senza tetto…) ho notato che non è difficile trovare comunità che le accolgano o persone che aiutino (almeno, non ancora così difficile). Ma è molto difficile che queste persone si lascino aiutare. E quando una persona si chiude e non si lascia aiutare, noi restiamo impotenti. Non sarà così anche con il Signore? Non sarà che abbiamo anche noi una grande paura a fidarci di questo aiuto, semplicemente a riceverlo? A accettare che sia “per noi”? Proprio “per me”? Come dice Gesù: è una esperienza che suscita il Padre, una voce della coscienza ci suggerisce di non avere paura. E forse anche questa è una esperienza non lontana millenni.