IV Domenica di Quaresima

Es 33, 7-11a; Sal 35; 1Tes 4,1b-12; Gv 9,1-38b

Domenica scorsa meditavamo, a partire da quel lungo scontro tra Gesù e i Farisei, sul fatto che è necessario intuire “già” e “dentro di noi” una verità del Vangelo e della vita cristiana, per capire la pretesa di Gesù.
Come anche – dicevamo – avviene per la Sammaritana: Gesù fa appello al fatto che noi possiamo capire la sua pretesa a partire da una verità che sta in noi (da uno Spirito e Verità). Ma senza questa intuizione comune (per nulla scontata) non c’è modo di intendersi, non c’è possibilità di dirsi qualcosa, e ci sarà sempre una pretesa religiosa o una pretesa laica (è indifferente) che litiga con la pretesa cristiana.

Cerchiamo di approfondire questo punto, a partire da questo racconto. Anzitutto osserviamo che i protagonisti, dopo la guarigione del cieco, continuano a discutere e a fare domande su ciò che è del tutto secondario.

Domande che vengono dal pregiudizio religioso (“di sabato non si fa”). Come dire: “in questa parrocchia si è sempre fatto così…” — quanti pregiudizi tante volte uccidono le relazioni fraterne come l’ideale uccide il reale. Parlate con un anziano “l’oratorio è così”… -perché se invece che qui ci si trova da un’altra parte non è più fede, è finita la comunità… I figli devono fare le esperienze che abbiamo fatto noi (??). Ecc.
E si discute – come in questo Vangelo – su cose che non sono “la questione”. Domande che vengono dal pregiudizio.

Domande che vengono dalla paura, come quelle dei genitori. Anche la paura di alcuni ragazzi di essere emarginati perché non si ritroverebbero in certe frasi. Ma la paura gli fa vedere e gli fa fare cose che altrimenti non farebbero. Proprio come questi genitori, che –come ogni genitore– non lascerebbe mai il figlio.

Su tutto questo contorno, che sono la nostra chiacchiera (anche ecclesiale, al 90% si discute di chiacchiere analoghe), solo il cieco, che non è mai andato a catechismo e non sa nulla di religione, resta di fronte alla sua realtà chiedendo di cavarci qualcosa, di dirgli qualcosa.

Così: anche il miracolo da solo non fa miracoli. Siamo soliti a credere fin da piccoli che se ci capitasse un grande evento allora crederemmo. Invece, siamo di fronte a una pagina che racconta in modo realistico che noi “vediamo” della realtà solo quello che siamo abituati a vedere. E uno non vede ciò che non ha mai imparato a vedere.
Guardiamo la realtà non sul rapporto di quello che davvero viviamo, ma sulla base del cuore, sulla base di quello che uno è, sulla base di quello che uno veramente vuole.

I Giudei per esempio, che sanno di religione, tuttavia nel profondo del cuore sanno anche che costui non lo vogliono e non gli interessa (lo avevano già deciso), qualsiasi cosa faccia.
Qualsiasi cosa faccia uno, se tu hai già deciso che di Dio non ti interessa, che di questi non ti interessa… è inutile. Non ne vogliono sapere di un Dio (di una parrocchia, di un figlio…) che sporga dalle loro condizioni, da quello che vogliono davvero, dalla loro storia.
E i Giudei sono disposti ad accettare Dio solo fino a che sono complici del loro pregiudizio.

Ecco il punto: stabilire un rapporto tra ciò che vogliamo davvero e la parola del Vangelo. Più che dire: lo voglio ma non posso, siamo invitati a sospettare di quello che vogliamo davvero.

Ci costerà un po’ di fatica introdurre in noi il sospetto su ciò che vogliamo veramente. Voglio veramente venire qui perché ritrovo ciò a cui sono stato abituato (già i miei due amici, il mio ruolo di animatore…), o voglio venire qui perché mi interessa della parola di questo Uomo e della vita di tutti questi fratelli.

I Giudei di questa pagina in fondo non sono più cattivi di noi. E ognuno si può ritrovare in loro perché è la condizione umana. Anche a noi il Vangelo oggi dice quello che uno vuole ascoltare e su tutto il resto di realtà (anche quando è grande come una casa) inizierà infinitamente a sospettare.
E a uno il Vangelo magari non dice niente se ha già deciso che questa parola è impossibile, che tanto di miracoli (o di cambiamenti) non ne esistono, che non lo riguarderanno.
Insegniamolo ai ragazzi: l’essere ciechi non è un male così grande come quello di non voler vedere.