IV domenica di Quaresima

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C’è uno strano paradosso che mi ha sempre fatto pensare in questo Vangelo. Il fatto che colui che è nato cieco sia l’unico a capire cosa è accaduto e a “vedere” Cristo, mentre coloro che ci vedono benissimo continuano a ostinarsi senza “vedere” cosa sia accaduto.
Perché mi colpisce questo paradosso? Perché è una situazione che mi pare accadere molte volte. Molti litigi mi sembrano nascere proprio come in questo vangelo: qualcuno sembra non credere perché semplicemente non vede quello che vedi tu.
“Non la vede come me”–diciamo, oppure: “non mi vede”, “mi ignora”, oppure ancora: “quello che vedo io a lui sembra diverso”. Così si litiga… come in questo Vangelo.

Mi piace pensare a Gesù Cristo come colui che cura la mia cecità. Non perché io non litighi più… ma perché impari a vedere la verità. Gesù come colui che mi insegna a vedere, ovvero non anzitutto come colui che cambia quello che mi succede. Diceva Marcel Proust, nel suo grande libro “alla ricerca del tempo perduto”: “il solo vero viaggio non sarebbe quello di andare verso nuovi paesaggi, ma di avere occhi diversi, di vedere l’universo con gli occhi di un altro, di cento altri, di vedere i cento universi che ciascuno di essi vede, che ciascuno di essi è.
Molte volte la vita non è brutta per delle circostanze, ma per quello che siamo capaci di vedere in quelle circostanze. Ricordo che dei ragazzi andati in Africa in visita a una missione erano stupiti di come i bambini in quella terra non avessero nulla (giochi o cellulari) eppure fossero felici e sorridenti. Mentre ieri ero a cena con un ex studente molto bravo che studia ad Harvard e mi spiegava che lì l’80% dei suoi compagni studenti fa uso di ansiolitici per sostenere gli esami. Hanno mille volte quello che hanno i ragazzi in Africa, ma devono prendere gli ansiolitici… Per dire che a volte quello che siamo capaci di vedere, gli “occhi” che abbiamo sono più importanti delle circostanze stesse. Per questo mi affascina pensare a Gesù come colui che mi insegna a guardare.

Talvolta mi sembra di essere come i farisei: ho le mie ragioni, non vedo cosa accade o cosa è accaduto agli altri. Mettermi dal punto di vista dell’altro è troppo difficile, troppo impegnativo. Chi fa l’educatore o ha dei figli sa quanta fatica costi e sa quanto è strano provare questo smarrimento: bisogna sforzarsi per provare a mettersi dal punto di vista di un altro. Come quando si guardano le nuvole: ci si stupisce della fantasia degli altri e di come gli altri vedano cose che noi a prima vista non scorgevamo affatto.
Talvolta eviterei tanti litigi e forse imparerei di più a voler bene se avessi l’umiltà di provare a vedere come vede un’altro, a prendere in considerazione la realtà che vede l’altro. Questi farisei non riescono ad accettare che accada nulla fuori dal loro schema e allora preferiscono allontanare il cieco piuttosto che allontanare il loro schema mentale. Perché accettare l’altro implica talvolta sospendere alcune mie convinzioni ben sedimentate e sicure, talvolta anche la mia stessa idea di Dio. Ma se non lo faccio, mi accorgo ci sono persone che è “come se fossero invisibili”. Non fastidiose o scomode, ma semplicemente invisibili.

E talvolta quello che non voglio vedere non sono soltanto gli altri, ma parti di me stesso. Non voglio vedere alcuni miei difetti, non voglio vedere che così continuo a farmi del male o a fargli del male… Una delle cose più difficili da saper vedere è quello che siamo.

Altre volte facciamo l’esperienza di essere al contrario come questo cieco: invisibili agli altri. Pare che nessuno, neanche i nostri genitori, capiscano o possano capire cosa abbiamo vissuto. E anche se non ci dicono, come in questo racconto, “fuori dalla città”, in fondo è come se già lo facessero. Di fatto, ciò che diciamo pare non intenderlo nessuno.
Le crisi più profonde con le persone che vogliamo bene, nascono non tanto perché l’altro “non lo vedi più” ma perché “è come se non ti vedesse”. Sono davvero solitudini difficili: eppure è dentro questa solitudine che il cieco ha riconosciuto Gesù. E la sua domanda finale “chi è Signore?” mi sembra l’ultima conferma che quell’uomo che aveva difronte, almeno lui, potesse capire.

Giungere alla fede sicuramente passerà dalla guarigione del nostro modo di vedere. Imparare a guardare gli altri, non farli sentire “invisibili”, ci aiuterà a non mettere fuori dalla nostra “città” sia il cieco nato che il Signore con lui. Ma più di tutto, essere guardati da Lui, essere capiti dal Signore stesso, sopratutto quando nessuno pare poterlo fare… questo è certamente l’incontro della fede che ci salva.