IV domenica di Quaresima

Es 34,27-35,1; Sal 35; 2Cor 3,7-18; Gv 9,1-38b

L’umanità e la storia di una persona sono visibili sul volto. La faccia, che si chiama “faccia” proprio perché la “faccio proprio io”, non è anzitutto questione di perfezione estetica, come vorrebbero farci credere in molti. E’ invece il luogo della nostra vulnerabilità assoluta e contiene –che lo vogliamo o no– tante delle nostre ferite e dei nostri desideri: i figli che abbiamo avuto, il lavoro che che abbiamo fatto, i sorrisi che abbiamo dato…
Forse per questo, il volto è quella parte di noi che oggi massimamente vorremmo camuffare o truccare. Perché è come fissare negli occhi la nostra vulnerabilità assoluta. Sul volto, ricorda l’Esodo, non c’è, come noi pensiamo, solo la nostra desiderabilità (quanto siamo belli), ma anche la vulnerabilità di quello che siamo e della nostra storia. Vulnerabilità è sempre l’espressione della nostra relazione con Dio, con il nostro destino: privo o meno di tutte le nostre speranze. Per questo, nel Levitico è scritto “onora la faccia del vecchio”.

La parte più penetrante del volto è certamente lo sguardo. Lo sguardo non è solo il colore degli occhi, ma contiene sempre –in una forma spesso indecifrabile– il modo che abbiamo di guardare gli altri e la vita. E’ proprio nello sguardo che distinguiamo tante volte la persona acuta o supponente o falsa, proprio perché, mentre si possono falsare le parole, è più difficile falsare il nostro sguardo. Per questo si abbassa lo sguardo quando si è di fronte a chi temiamo o a chi timidamente amiamo: percepiamo lì tutta la nostra vulnerabilità.

L’umanità è questione davvero di sguardo, di come, a lungo, ci abituiamo a guardare la vita e gli altri: i nostri figli, gli amici, i colleghi… E proprio su questo sembra che il Signore Gesù voglia insistere. Devi imparare ad avere uno sguardo all’altezza della tua umanità.
I discepoli passano per una città e vedono un cieco. Come guardano questo cieco? Si domanda Gesù. Cosa pensano subito? Dopo anni passati con Lui, forse Gesù si aspettava questa domanda: “cosa posso fare perché si manifesti qualcosa di Dio, anche in questo cieco?” Perché questo è lo sguardo di Gesù! Invece pensano al significato di questo male (sembrano fare i teologi): “perché Dio lo ha voluto? Chi ha peccato?”. Che sguardo e che domanda lontani da Dio!
Gesù insisterà anche alla fine: la cosa peggiore che ci può accadere, non è di non avere la vista, ma di rimanere ciechi di fronte alla realtà perché continuiamo ad interrogarla e a guardarla con desideri sbagliati, con false domande.

Lo sguardo malato è davvero evidente nel discorso dei Giudei, in particolare nella domanda che continuano a fare, proprio perché non sanno vedere la realtà: “E’ questo vostro figlio –dicono ai genitori– che voi dite essere nato cieco? Come mai ora ci vede?”. Che domanda è: “come mai ora ci vede?”? Questo è il fatto. La domanda non si appassiona a quello che è accaduto, ma riflette il risentimento del suo accadere.

“Perché lui e non un altro?”, “perché è successo proprio lì?” non sono mai state domande di Gesù che, se non sa fare un miracolo o non sa guarire, almeno si avvicina per curare (questo è detto tante volte nel Vangelo: Gesù non solo guarisce, ma tante volte soltanto “cura”).
Anche la gioia del tutto disinteressata per il bene di qualcuno è spesso aggredita da mille sospetti o domande che non c’entrano. Ci domandiamo: “tanto cosa cambia?” oppure “ma io ci rimetto…”.
Di fronte a un uomo che si spende gratuitamente per la felicità di un altro, c’è mascherato oggi il sospetto che nasconda un bisogno di risarcire, di essere perdonato, di essere esaltato… che sia solo il condizionamento di una cultura bigotta che lo fa agire così, oppure un fatto di psicologia. A volte si dice addirittura: “è solo perché ha questo carattere…”.

I nostri figli rischiano di non vedere più dentro la gratuità dei gesti della vita qualcosa di Dio (una verità assoluta dell’umano), ma soltanto il meccanismo istintivo di una “natura” (o “fato”) che fa nascere “fortunati” o “sfortunati”, “ricchi” o “poveri”… indistintamente e senza che nulla dipenda dalla loro libertà, dal loro sguardo.
Per esempio, hanno imparato a vedere la Chiesa, anche quando hanno vissuto all’ombra del campanile o dell’oratorio (coccolati fin dalla nascita), come il luogo di un commercio un po’ losco e ambiguo… E guardano alle preghiere di chi non può più fare nulla, ma vuole ancora amare, come il gesto scaramantico di un condizionamento psicologico.

Però, guardando così la realtà, attraverso questo sospetto che ti fa dire “non è come si vede”, tutto l’umano diventa triste e buoi (davvero cieco). Lo sguardo si incupisce e la vita perde la sua gratuità, la sua inaspettata “grazia”. Perché capiscano l’inganno che si maschera nel loro sospetto, proprio dietro i loro occhi, basta a volte che prendano sul serio un’esperienza bella e gratuita che gli è capitata e davvero ne basterebbe una.