IV domenica di Pasqua

Letture

LETTURA At 6, 1-7 Lettura degli Atti degli Apostoli In quei giorni, aumentando il numero dei discepoli, quelli di lingua greca mormorarono contro quelli di lingua ebraica perché, nell’assistenza quotidiana, venivano trascurate le loro vedove. Allora i Dodici convocarono il gruppo dei discepoli e dissero: «Non è giusto che noi lasciamo da parte la parola di Dio per servire alle mense. Dunque, fratelli, cercate fra voi sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di sapienza, ai quali affideremo questo incarico. Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al servizio della Parola». Piacque questa proposta a tutto il gruppo e scelsero Stefano, uomo pieno di fede e di Spirito Santo, Filippo, Pròcoro, Nicànore, Timone, Parmenàs e Nicola, un prosèlito di Antiòchia. Li presentarono agli apostoli e, dopo aver pregato, imposero loro le mani. E la parola di Dio si diffondeva e il numero dei discepoli a Gerusalemme si moltiplicava grandemente; anche una grande moltitudine di sacerdoti aderiva alla fede. SALMO Sal 134 (135) Benedite il Signore, voi tutti suoi servi. Lodate il nome del Signore, lodatelo, servi del Signore, voi che state nella casa del Signore, negli atri della casa del nostro Dio. Il Signore si è scelto Giacobbe, Israele come sua proprietà. R Lodate il Signore, perché il Signore è buono; cantate inni al suo nome, perché è amabile. Signore, il tuo nome è per sempre; Signore, il tuo ricordo di generazione in generazione. Sì, il Signore fa giustizia al suo popolo e dei suoi servi ha compassione. R Benedici il Signore, casa d’Israele; benedici il Signore, casa di Aronne; benedici il Signore, casa di Levi; voi che temete il Signore, benedite il Signore. Da Sion, benedetto il Signore, che abita in Gerusalemme! R EPISTOLA Rm 10, 11-15 Lettera di san Paolo apostolo ai Romani Fratelli, dice la Scrittura: «Chiunque crede in lui non sarà deluso». Poiché non c’è distinzione fra Giudeo e Greco, dato che lui stesso è il Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che lo invocano. Infatti: «Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato». Ora, come invocheranno colui nel quale non hanno creduto? Come crederanno in colui del quale non hanno sentito parlare? Come ne sentiranno parlare senza qualcuno che lo annunci? E come lo annunceranno, se non sono stati inviati? Come sta scritto: «Quanto sono belli i piedi di coloro che recano un lieto annuncio di bene!». VANGELO Gv 10, 11-18 ✠ Lettura del Vangelo secondo Giovanni In quel tempo. Il Signore Gesù disse ai farisei: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore. Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».

Credo che il tema centrale di queste letture sia la comunità. Come vive e cos’è una comunità cristiana?
Nella lettura degli Atti, quello che mi colpisce, al di là delle belle parole sulla carità, è che fin da subito la comunità è tutt’altro che un luogo idilliaco dove tutti vanno d’accordo.
Fin da subito si creano divisioni e in particolare tra quelli di lingua greca e i nativi ebrei. Da queste discordie il racconto ha inizio. Probabilmente non c’è solo una questione pratica che le vedove dei primi vengono escluse –del resto, anche i nostri litigi nascondono spesso ben altro dietro le piccole cose pratiche– molto probabilmente il testo nasconde che ci sono due idee diverse sull’accesso delle donne senza marito all’eucarestia. E da lì a poco, nella comunità di Antiochia, il problema diventerà poi la circoncisione degli Ebrei e la non-circoncisione degli ellenisti.
Quindi non è verosimile pensare che qui ci sia un gruppo che soltanto è addetto alla carità, contro un gruppo che è addetto alla preghiera. Infatti, subito dopo i Sette, a partire da Stefano e Filippo, faranno esattamente quello che fanno i Dodici e inizieranno ad annunciare il Vangelo, non solo a occuparsi delle “mense”.
Più realisticamente questo nuovo gruppo istituito assolve alle esigenze del gruppo degli Ellenisti e fa da loro riferimento. E a conferma di questo, si potrebbe ricordare che la persecuzione di cui si parlerà tra poco negli Atti, non ha riguardato gli ebrei del gruppo legato ai Dodici (la comunità di Giacomo), ma solo coloro che seguivano le posizioni degli “Ellenisti” a partire appunto dal diacono Stefano.

Dunque, una comunità che vista così, non manca di divisioni al suo interno ed è tutt’altro che un luogo pacifico o idilliaco. Tuttavia, per Luca è chiara una cosa: le divergenze e le diversità bisogna risolverle con l’intelligenza, ma non è questo ciò che fa o meno una comunità. Lo dirà Paolo: “non c’è distinzione tra Giudeo o Greco”, ovvero ciò che fa la comunità non è una affinità di cultura o di origine, non è il gruppo chiuso degli amici che da sempre si riconosce e si rispecchia, simili per nascita, storia o modo di parlare. La comunità non è il gruppo che si è sempre ritrovato all’oratorio, o al Bar o avendo condiviso l’adolescenza allora si sente affiatato.
Ciò che invece fa la comunità, direbbe Luca, è che “una Parola di Dio si diffondeva”. Questo fa una comunità e sa unire gente molto diversa, di solito anche togliendo privilegi a quei gruppetti chiusi che si sentono solo loro la comunità, ma non sanno neanche salutare i propri vicini di panca… e forse questo sottende anche l’episodio dei Diaconi.
È “una Parola di Dio” che unisce e affascina anche i sacerdoti, dice sempre Luca, verosimilmente non quelli del tempio di Gerusalemme che avevano ucciso Gesù, ma quelli separati di Samaria e di Qumran.

Ma cosa significa questo, cosa significa che è la Parola di Dio che edifica una comunità? Forse solo il Vangelo riesce a dirlo con chiarezza.
Io interpreto così: c’è un modo di essere comunità che è quello normalissimo e naturale di seguire un qualche mercenario, il mondo ne è sempre pieno: che sia il leader di un piccolo gruppo, un uomo o una donna carismatici, che sia un’ideologia, un cantante, oppure uno sport…
E non c’è nulla di scandaloso in tutto questo. Il modo con il quale si crea consenso, gruppo e appartenenza… è naturalmente quello del mercenario.
Questo vale anche per noi: stiamo nel gruppo fintanto che questo corrisponde a qualche nostro bisogno, ci arreca un qualche vantaggio e dal gruppo in fretta scappiamo quando è chiesto qualcosa in più. Anche in famiglia riaccade questo: scappiamo continuamente. Ma non ci sono da fare moralismi: è così! Seguiamo mercenari e spesso siamo mercenari anche noi stessi.
Questo non è scandaloso, questa è la normalità della vita e addirittura vale anche per la religione: c’è uno scambio come tra benefici e costi, tra richieste e sacrifici che si fanno a Dio. Credo se Dio mi ascolta e mi fa il miracolo, non credo più se non mi sento ascoltato. Il mio sacrificio serve a ottenere un beneficio. E spesso quando non conviene più si lascia.

Proprio su questo tema, Gesù dice qualcosa di straordinariamente diverso che mette in crisi, nel suo nucleo profondo, anche la religione come sorta di “baratto con Dio” e le relazioni tra noi come calcolo tra “benefici e sacrifici”.
Noi forse non ne siamo capaci, non siamo capaci della Parola di Gesù, del Buon Pastore e ricorreremo sempre ai nostri calcoli interiori, ma quando si percepisce l’alternativa, quando si incontra una comunità dove anche se in millesima parte si vive tutta questa diversità di relazioni… allora nasce un fascino profondo, come l’intuizione di una verità.
Il pastore conosce le pecore, il mercenario no. Possiamo conoscerci gli uni gli altri davvero, al di là del nostro momentaneo sentimento, possiamo essere davvero una comunità, o una famiglia, indipendentemente da quanto siamo diversi, solo a partire da una cura incondizionata, reale a faticosa che non abbraccia mai la fuga come risoluzione dei nostri problemi, ma abbia come unico scopo il bene dell’altro, prima del bene per sé: “dà la propria vita per le pecore”.
Non ci riusciremo mai… è vero, ma lo sappiamo e lo abbiamo visto. Questa è la strada e solo questa è la forza che fa una comunità oltre ogni sua inevitabile divisione. Chi dona sé stesso non lo fa con la speranza di meritare qualcosa come premio per tale sacrificio (magari la vita oltre la morte), ma con la certezza di vivere solo così la vita stessa in pienezza, per la forza dell’amore stesso.

Oggi possiamo più facilmente scappare gli uni dagli altri, basta spegnere un telefono, non interessarsi di qualcuno, uscire da una chat o da una conferenza, chiudere una porta, non farsi sentire… oggi scappare è facilissimo quando gli altri ci pesano e parallelamente è facilissimo lamentarsi quando ci sentiamo abbandonati e soli davanti a lupo. Lo sapevamo, ma è sempre doloroso quando il nostro mercenario scappa e se ne va via.
Inoltre, abbiamo davvero la paura per un lupo ben presente e reale che è la malattia. Ma ci rimarrà sempre lo stesso problema: per chi o per cosa potrò dire che davvero è valsa la pena? Il mercenario che scappa rimarrà alla fine ben protetto, ma sempre a mani vuote: per chi avrà vissuto alla fine? Per cosa sarà valsa la sua vita?
Il problema non è solo proteggerci, ma per cosa rischiare e amare davvero. Per cosa la vita vale la pena anche di essere persa.