IV domenica di Pasqua

At 6,1-7; Sal 134; Rm 10, 11-15; Gv 10, 11-18

Leggendo per intero il Vangelo si capisce che Gesù deve aver vissuto realmente le relazioni con i discepoli come il buon pastore che descrive. Forse non è stato l’unico uomo nella storia a vivere esponendo la propria vita, rischiando l’incolumità anche fisica per il bene delle persone che ama. Ma Gesù è esistito e ha vissuto così: disposto a mettere in pericolo la vita o la reputazione per qualcuno.
Mi fa riflettere che oggi si parli così tanto di sicurezza in tantissimi settori della vita: sul lavoro siamo oberati da “norme sulla sicurezza”. Nella società civile non si fa che chiedere più sicurezza rispetto per esempio al rischio attentati. Persino all’interno della famiglia si verrebbe più sicurezza, o –come diciamo– più “serenità”. Il rischio e il pericolo sono vissuti con grande ansia. Ma è possibile amare e vivere, legarsi a qualcuno, senza il rischio che si assume il pastore per le pecore? E’ possibile la felicità senza aver trovato qualcuno per cui valga la pena rischiare?

L’immagine del pastore buono e la vita di Gesù mi ricordano che se si vuole bene non si può stare tranquilli, non si può essere sicuri, ma al contrario è necessario rischiare. Non c’è voler bene senza un certo rischio personale, senza una personale esposizione. Chi fugge, chi scappa e si mette in salvo avrà la propria personale sicurezza, ma non protegge nessuno, non aiuta nessuno, “non gli importa di nessuno”. In qualche modo se ami devi assumerti un rischio: il rischio che l’altro ti rifiuti, che faccia di testa sua… il rischio del fallimento. La sicurezza si ottiene soltanto stando da soli.

Gesù espone la propria vita come il buon pastore. Viene da chiederci: dov’è oggi Gesù Cristo? Dove sono oggi i buoni pastori? Ha forse delegato questo compito alla Chiesa? E’ difficile rispondere a questa domanda. Io ho avuto la fortuna di incontrare e conoscere personalmente persone che sono state state come Gesù: pastori buoni. Tuttavia ho incontrato, anche all’interno della Chiesa tanti “mercenari”. E ora, mi accorgo e vedo anche in me steso che si può essere al tempo stesso “pastori” e “mercenari”. E’ uno scandalo difficile da capire e da credere: non si è solo “o pastori” “o mercenari”, ma si può essere entrambi. L’unica cosa che posso aggiungere su questo è che –per me– l’essere pastori buoni rivela qualcosa di Gesù, mi parla di Cristo dove posso vederlo.

Dunque, ci si può chiedere dove sono oggi i pastori buoni, magari nella Chiesa. Ma ci si dovrà anche chiedere dov’è il gregge. L’immagine di un gregge è adatta a descrivere la società nella quale viviamo? Un mondo, il nostro molto evoluto e ricco, dove ognuno vive per sé, per la sua famiglia, per i suoi amici, per realizzare l’ideale della sua “indipendenza”? Per trovare un pastore come Gesù è necessario anche fare esperienza di una dipendenza reciproca. A volte ho impressione che manchi il gregge, manchi il legame, manchi l’aver sperimentato una dipendenza, una socializzazione profonda. Ognuno vive per sé stesso. Un documentario sulla vita in Svezia (“La teoria svedese dell’amore”) racconta di come, ormai in questo evoluto paese del primo mondo, la metà degli svedesi viva da solo e di come uno su quattro addirittura muoia da solo, ovvero muoia senza mancare a nessuno, senza che più nessuno si accorga di lui. Si ha tutto, ci si realizza, si vive sicuri, ma manca un legame o un legame che tenga nella storia delle nostre vite.

Alla fine del documentario, una intervista a Baumann mi pare affermi cose molto vicine a quel coraggio del “buon Pastore” che vediamo in Gesù: «Felicità non significa una vita priva di problemi. Una vita felice si ottiene superando le difficoltà, fronteggiando i problemi, risolvendoli. La via dell’indipendenza non porta alla felicità, ma a una vita vuota, all’insignificanza della vita e a una noia assoluta e inimmaginabile