IV Domenica di Pasqua

At 20,7-12; Sal 29; 1Tim 4,22-16; Gv 10,27-30

Ci sono alcuni testi che si capiscono e diventano significativi solo quando si leggono a partire da un particolare. Accade così per chi si innamora: è un particolare spesso a venirgli incontro improvvisamente e a rendere quel volto, quella storia, quella lettura diversa da tutte le altre.
Così avviene per questa pagina biblica. Mille volte ci hanno detto che Gesù si è definito il buon pastore e che noi siamo il suo gregge, ma questo non ha significato molto. Infatti, serve un particolare che dia senso e sapore. Qual’è questo particolare dal quale ricomprendere tutto? “Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco e mi seguono. E io do loro vita eterna…
Il particolare da capire e approfondire è per me l’aggettivo possessivo “mie”. E’ con questa parolina che Gesù si è tradito, ha mostrato la sua debolezza. Senza questo “mie pecore”, senza l’espressione di questo possesso, di questo attaccamento, l’immagine non dice nulla, non esprime la sua bellezza. Nel vangelo di Giovanni questo possessivo era diventato un nome stesso: “i suoi”.
Infatti, lo capiamo tutti: è brutto essere di nessuno. Nell’antichità era così chiaro che chi era di nessuno erano gli schiavi, che erano schiavi proprio perché non erano di nessuno, mentre si era liberi non quando si era soli, ma al contrario quando si era di qualcuno.

Questo attaccamento è l’espressione di tutta l’affezione di Dio. Uso apposta la parola “affezione” e non “amore” perché qui non c’è in gioco un sentimento di piacevolezza, ma un legame, un vincolo. La cosa bella è che nella vita possiamo provare benissimo questa affezione e dunque possiamo capire perfettamente questa espressione di Gesù. Accade quando viviamo l’espressione di una fragilità, di una dipendenza che ci fa stare con il fiato sospeso. Ciò che ci fa simili a Dio, ci rende uomini veri, non è l’essere indipendenti dagli altri o autonomi, ma al contrario è il poter vivere questa fragilità di un legame sperato che diventa così forte da cambiare la nostra identità.
Dio si era già tradito allo stesso modo nel primo comandamento: “io sono il Signore Dio tuo” aveva detto. Anche qui il significato della frase risiede tutto in questa parola “tuo”. Se non avesse detto “tuo” sarebbe stata una frase ovvia come tante altre, ma è con questo tuo che si tradisce.

E’ lui che ci conosce, non siamo tanto noi che conosciamo lui. Questa dipendenza, questo essere dei “suoi”, si può sperimentare nella nostalgia della sua assenza. Riconoscere questa nostalgia, questo “sigillo a fuoco” che non ci permette mai di allontanarci troppo da Dio, mai definitivamente e del tutto, è forse la forma più paradossale ma più vera per capire cosa sia l’essere sue pecore.

L’ultima pagina del vangelo di Giovanni ce lo ricorda. Pietro che ha tradito il Signore deve mettersi di fronte a questa nostalgia e alla consapevolezza insieme che lui sa tutto, che lui conosce tutto, comprese le nostre ambiguità. Dopo che per tre volte si sente rivolgere la domanda “mi vuoi bene?” è costretto a sbottare e a mettersi di fronte alla verità di sé: “tu Signore sai tutto”, ovvero tu conosci il groviglio del mio cuore, conosci i miei tradimenti e la mia incapacità a esserti fedele… “Ti basti questo!” dice Pietro. E questo davvero basta a renderci suoi, perché è lui a scegliere noi e non viceversa.
Contro ogni moralismo è Dio che tiene salda la mano su di noi e non viceversa. “Anche se andassi nell’oscurità più tetra lontano da te, anche il buio per te è come la luce e la notte è chiara come il giorno” dice il salmista esprimendo la stessa consapevolezza.

Non è importante sapere tutto su Dio, l’unità con lui non deriva da questo moralismo. Deriva invece dalla consapevolezza opposta, dall’onestà con il quale riconosciamo che “tu Signore sai tutto!” e solo questo ci renderà fino alla fine sue pecore.