IV Domenica di Pasqua

At 21,8b-14; Sal 15; Fil 1,8-14; Gv 15,9-17

Vorrei fare due osservazioni a partire dal Vangelo che servano a farci riflettere.

1) Abbiamo ascoltato l’insistenza di Gesù nel dire la necessità di seguirlo: “rimanete nel mio amore”, “osservate i miei comandi” e, poco più avanti, “continuo a dirvi queste cose…”.

Altre strade spesso ci affascinano maggiormente rispetto a quella di seguire Gesù.
Qualcuno, per esempio, pensa che avrà qualcosa da dire ai suoi figli “leggendo buoni manuali di psicologia”. Qualcuno pensa che la famiglia sarà serena e bella “con un po’ di fortuna”… Altri scelgono la strada dell’attivismo (lavoro, lavoro, lavoro…) e altri quella di uno spiritualismo ingenuo (“vai in Chiesa che ti andrà bene…”). Di queste ultime due strade parlavamo il giorno di Pasqua.

Qualcuno ritiene semplicemente che non serva seguire qualcuno, rimanere nella memoria e nel comando di qualcuno. “Segui te stesso”, “cerca la tua strada”, sono slogan tanto ingenui quanto popolari (e quanta solitudine in queste frasi! Almeno fossero: un “cerchiamo insieme”).
Secondo questa logica, solamente l’esperienza personale (e necessariamente solitaria) serve a capire la propria verità, a formare le proprie idee personali e le proprie convinzioni. Sarebbero le esperienze della vita a indicarci una verità e una strada. Provando tante cose, maturando negli anni, aprendosi a tante esperienze, allora si scopre cosa rimane, cosa è importante; si scopre cosa sia “amare” cosa sia “un amico”, ad esempio. Sarebbe in qualche modo superfluo “seguire il Signore”: è la vita stessa che mi insegna attraverso l’esperienza.
In tanti oggi la pensano così e si sono fatti le loro idee semplicemente dall’esperienza, dal passare degli anni o dal buon senso.

Un cristiano sa che anche questa è una falsa strada! Che l’esperienza da sola non ci fa capire le cose, non ci rende più maturi, non ci rende più grandi o persone umanamente più vere e ricche. E’ sotto gli occhi di tutti: si cresce e si diventa anche più cinici, anche più insensibili al male, anche più cattivi. A volte si perde lo slancio e la fantasia. Potrei fare l’esempio dei professori… ma non solo loro.
Non è affatto detto che a 30 anni si sappia di più sulla vita perché si ha vissuto di più. Si tradisce anche a 40 anni come si tradisce a 18. Anzi, spesso con una aggiunta: che a 40 anni ci si è anche rassegnati, si è diventati meno sensibili. Si soffre meno spesso soltanto perché ci si è abituati e non si sete più.

Al contrario, per un cristiano, più il tempo passa, più si impara a capire quanto sia necessario “seguire” e non semplicemente “vivere”. “Seguire” qualcosa o qualcuno perché non è la vita stessa a indicarci la strada, a mostrarci il senso del nostro agire. Non è l’esperienza sola a poterci cambiare in meglio.

“Rimanete nel mio amore”. Se da adulti non volete essere gente rassegnata, mediocre, abituata a sopportare la vita, come quelli che quando lavorano pensano alla vacanza e quando sono in vacanza pensano al lavoro… l’unica strada è “rimanere nel suo amore”.
Dice S. Paolo, e dovremmo poterlo dire anche noi: “io non ho altro da dirvi se non la sequela al Signore Gesù”, “sono venuto da voi soltanto con questo e non ho nulla di più di questo da dire”.

2) Un’ultima osservazione. Gesù dice “continuo a dirvi queste cose perché la vostra gioia sia piena“.
Un adulto direbbe: che illusione! Quando mai la “gioia è piena”? Una gioia piena è una pretesa eccessiva. Io mi accontenterei di meno, mi accontenterei di un po’ di serenità.

Gesù invece ha questa pretesa eccessiva che fa appello a un nostro desiderio profondo e chiede di non rassegnarci. Voler bene non è solo desiderare una serenità mediocre o “non litigare”. Voler bene contiene il desiderio infinito di bene per l’altro, contiene il desiderio di una gioia piena per l’altro. “La gioia piena”, ovvero “la gioia vera”, “la vita autentica”, sono la forza del nostro desiderio, sono il senso vero anche di quei gesti che appaiono essere molto meno. Un ragazzo non si accorge di voler bene quando “non sta male”, ma quando intuisce una promessa e una pretesa dell’altro nella sua vita.
“Pieno” significa anche unificato, ovvero, una felicità che non sia una distrazione dalla vita, ma che sappia contenerla tutta, che accetti la sfida della totalità. Dunque, sappiamo bene che non è gioia piena quella che distrae dalla vita o quella che si accontenta dei momenti felici e che poi piange (o recrimina) l’assenza dell’altro. Dentro di noi c’è un desiderio che è ben diverso.

Scriveva una ragazza che ha vissuto l’esperienza di una fraternità, di una condivisione quotidiana, di una comunità: “in una comunità ho capito che c’è un per sempre, una cosa che vuole e che può valere per sempre, che dura per sempre. Noi siamo nati e cresciuti nel provvisorio, nel fragile, nelle sabbie mobili; io non so di Dio, della messa, ma io so di loro, a me basta poter percepire questo.” (S. Cattarina, Torniamo a Casa, Itaca 2010)

Amare non è il sentimento buono di alcuni momenti, ma è dare la vita. Detto in atri termini: “desiderare il destino buono dell’altro più della propria vita”. Questo scopre chi segue il Signore.
Se un uomo non si è ancora del tutto rassegnato, può percepire senza sbagliarsi che in queste parole, “dare la vita per i propri amici”, c’è molto di più di un consiglio morale, ma c’è una pretesa, c’è la forma di una esistenza autentica! Lo percepisce benissimo un ragazzo a 14 anni come un adulto a 50, lo percepisce senza potersi sbagliare, anche quando non è in grado di dirlo o di viverlo.