IV domenica di Avvento

Is 4,2-5; Sal 23; Eb 2,5-15; Lc 19,28-38

C’è un filo comune che unisce queste letture: in tutte si parla di “onore”, di “gloria”, di “potenza”… e al tempo stesso si racconta di un sangue versato, di un sacrificio, di un compito oneroso che si attende. Potremmo dire: luce e ombra, promessa e anche desiderio non subito compiuto. Isaia è chiaro: ci sarà un momento dove Dio si vedrà (la gloria di Dio) ma pure questa esperienza passerà per un fuoco, per un sangue, per una fatica. Così la lettera agli Ebrei: tutto ci è stato sottomesso però al momento presente ancora non vediamo che ogni cosa è a Cristo sottomessa. E questo “essere tutto a lui sottomesso” passa attraverso una sofferente incarnazione (“rendesse perfetto per mezzo delle sofferenze il capo che guida alla salvezza”). E il Vangelo richiama la stessa ambivalenza della gloria: Gesù entra trionfalmente a Gerusalemme, ma per dare la vita.

Vorrei dunque riflettere un momento su questo legame tra il sacrificio, la fatica, la perdita e invece il bene, la gloria, la pienezza.
In italiano ci sono due parole per dire “fare sacro” qualcosa: consacrare e sacrificare. Entrambe le parole indicano che c’è qualcosa di importante, di sacro, ma mentre consacrare ha assunto il significato di “custodire”, “proteggere” (anche a costo della vita), viceversa sacrificare indica che per vivere e per far crescere qualcosa di bello (una pianta, un figlio, una passione) è necessario anche rinunciare, non mettere a reddito, imprimere il segno di una mancanza, di un limite, della non saturazione.

Mi sembra interessante che entrambe queste parole (sacrificare e consacrare) abbiano una radice comune. Come dire: non c’è cosa sacra, non c’è custodia bella, non c’è oggetto prezioso e affascinante che non debba contenere il segno della mancanza, della perdita, del sacrificio appunto. Una cosa bella e preziosa è tale se impedisce che noi viviamo solo saturando il desiderio, riempiendolo… e così senza attese, mancanze, nostalgie e quindi sogni, desideri, perdite…

E’ una legge della vita: le cose migliori chiedono una parte sacrificale. Ricorda Gesù: “la donna prima del parto piange ma poi si rallegra che ha dato alla luce un figlio…”, “il chicco di grano se non muore non produce frutto”…
Anche Bataille, uno dei discepoli di Nietzsche, certamente un uomo non credente, si era accorto di questo: non c’è bellezza, non c’è incanto o perfezione o soddisfazione vera che non passi da una parte sacrificale e questo deve valere per l’economia, la politica, lo studio, gli affetti…

Noi abbiamo perso tutto questo. Più precisamente la filosofia consumista ce l’ha fatto perdere ed è avvenuto quasi senza che ce ne accorgessimo.
Anche per crescere i figli, abbiamo pensato che la parte sacrificale (della mancanza, della non saturazione, dell’attesa) fosse “non necessaria”, non indispensabile, non altrettanto nobile. Guai a vedere un figlio che “fa le sue fatiche”, che patisce un po’, che deve rinunciare (anche se hanno tutto)… L’aspetto “sacrificale” può essere accettato solo se direttamente funzionale a qualcos’altro (per avere la pelle più bella o la casa più grande…). Da noi si dice: “se la sposa deve comparire, qualcosa deve soffrire”. Ma questa idea ci rovina: continua a essere una versione del narcisismo. Non ci si affezionerà a nulla così: con il tempo le cose varranno sempre meno sacrifici e alla fine ci si domanderà il perché… Ci è entrato in testa l’idea sbagliata che sacrificare è sempre solo un costo da evitare e non la strada per trovare qualcosa che “vale”. Inutile non vedere come i ragazzi non apprezzino più nulla proprio perché non gli costa più nulla. Quando nulla ti costa tutto ti è indifferente.

Notate: in questa logica si dà e si regala agli altri sempre solo quello che avanza, quello che viene solo dopo che io ho tutto. Ma quello che avanza è appunto un “avanzo” e non vale niente e così anche Dio lo respinge. La vedova che dà la sua monetina al tempio da molto di più del ricco proprio perché non era l’avanzo. Se l’idea è quella della massima realizzazione di sé il desiderio subirà le sue frustrazioni sempre solo come una fatica insormontabile invece che usarle come stimoli che dicono la preziosità per qualcosa d’altro che ho realizzato: per fare un figlio, fare una casa, fare bene un lavoro… Come nel mito, l’uomo moderno assomiglia a Narciso che affoga nel lago preso solo dal proprio rispecchiamento (la propria realizzazione a costo zero).

In questo tempo di pluralismo di religioni e di incontri di popoli dovremmo tornare a questa domanda. Non tanto la religione alla quale appartieni, ma la fede che ne vuoi ricavare dalla tua tradizione. La fede che ricavi dalla tua religione (ateo, cattolico, buddista, islamico) cosa ti incoraggia a sacrificare e cosa a custodire? Cosa sei disposto a sacrificare di te e cosa a custodire? E a favore di chi?
Dobbiamo ricordarci e chiedere alle altre fedi (atei compresi) che la fede che ne ricavo io dalla mia religione è che i miei piccoli –i miei indifesi– valgono come tutti gli altri, come quelli dei Samaritani. La tua fede invece cosa ti fa proteggere, cosa è “sacro” o “consacrato” e a quale costo e perché?