III Domenica dopo Pentecoste

Gen 2,18-25; Sal 8; Ef 5,21-33; Mc 10,1-12

Penso che dobbiamo per un momento sospendere tutti i proclami (e le relative polemiche) che si sono fatti sul matrimonio e sulla famiglia (uomo-donna, indissolubile…). Mi sembra che si parli troppo e il rischio di fronte a queste letture è di essere ideologici e non scavare la realtà.
Vorrei allora parlare come in punta di piedi senza gradi proclami. Prima di matrimonio o famiglia siamo qui per capire (se c’è) un senso cristiano del rapporto uomo e donna. Non solo del matrimonio ma del senso cristiano dell’amore uomo-donna che può arrivare anche (a volte) alla benedizione del matrimonio.

1) La prima affermazione è che l’uomo non è fatto per una solitudine. Che non significa che l’uomo non possa vivere solo. Non significa che non abbia senso la solitudine di Elia o quella di Geremia o di Gesù stesso. Ma l’essere umano può vivere solo, a patto di vivere una comunione più grande della sua solitudine.
Dice la Genesi: questa relazione è una relazione sessuata (che non significa necessariamente sessuale) dice “che gli sia all’altezza”. Su questa parità della donna già commentavamo qualche domenica fa “la costola”. Ma basterebbe guardare il soffitto della Sistina se ancora si hanno dei dubbi: c’è un gesto molto bello di Dio che sembra davvero dire alla donna, “vai a testa alta”, “stai su” e non stare dietro. Il vangelo di oggi nel suo contesto richiama questa parità perché si colloca nella diatriba tra la scuola di Hillel e quella di Shammai su quel “qualcosa di vergognoso che permette il ripudio” di Dt. Ma non mi fermo su questo.
Dico invece: il senso cristiano dell’amore (anche fisico) uomo-donna — a differenza di quanto pensiamo — sa di non avere nulla di vergognoso. Questo non è scontato. C’è un equivoco cristiano che si annida: come a dire: l’unione vera tra uomo e donna è una cosa un po’ sporca e tabù. Ma il matrimonio la ripulisce. Non c’è fraintendimento più grande. Mi chiedo dove questo sia scritto?

2) L’amore tra uomo e donna è già benedetto da Dio all’origine: questo dice il senso cristiano di chi si è lasciato istruire dalla Bibbia. Il problema, invece, è che io (non la mia unione) non sono all’altezza di questa relazione, di quello che questa relazione o unione mi chiede. E qui si arriva alla terza affermazione.

3) La domanda è questa: “don”, mi diceva un ragazzo, “ma se sia io che lei non abbiamo più voglia?”, “che male c’è?”. Ma che cosa significa che l’uomo “conosce” la donna? E’ una voglia –chiedo io– o qualcosa di più grande? Perché la voglia è solo una conseguenza dell’amore. Quando “amo”, “vorrò anche la mia donna”, ma non tutto ciò che voglio io lo amo davvero. Intendo dire: ridurre l’amore alla voglia non è come ridurre l’altro a qualcosa di me? Non si è sempre un po’ opportunisti dell’altro se diciamo non che “lo amiamo” ma solo (come sappiamo davvero) che “ne abbiamo voglia”?
Non è detto che la “voglia o non voglia dell’altro” faccia per forza del male agli altri, ma riduce sempre gli altri a sé o a un proprio desiderio. Dunque, non è che si rimane continuamente soli se soltanto abbiamo voglia della vicinanza di un altro?
La Bibbia direbbe: l’uomo non è fatto per rimanere solo ma l’unico modo per non rimanere solo è che viva un desiderio più grande della sua solitudine, cioè di ridurre gli altri a sé. Ridurre gli altri a sé significa: è la moglie che comanda al marito urlando, è il marito che si dimentica di portare fuori a cena la moglie…

Invece, quando si ama davvero (tale da sapere di non essere soli) l’origine e la destinazione del proprio amore non è la voglia ma qualcosa che davvero ha a che fare con Dio. Tanto che gli amanti veri dicono: è proprio Dio che ti ha messo sulla mia strada. Per questo l’amore ha bisogno di un terzo, di un orizzonte condiviso più grande tra l’io e il tu, altrimenti è irrimediabilmente schiacciato nell’orizzonte del “voglio” o “non voglio più”.

Per questo Gesù dice: non separate quello che Dio ha unito. Diremmo noi: ma cosa ha unito Dio? Invece, proprio un Dio mi permette di dire che il mio amore ha senso e non è una voglia.
Scrive Bonhoeffer che è come il contrappunto (la polifonia) e la melodia (il canto fermo):

“È però il pericolo di ogni profondo amore erotico che per esso si perda, vorrei dire, la polifonia della vita. Intendo questo: Dio e la sua eternità vogliono essere amati con tutto il cuore, non in modo che ne risulti compromesso o indebolito l’amore terreno, ma in certo senso come cantus firmus, rispetto al quale le altre voci della vita suonano come contrappunto. Dove il cantus firmus è chiaro e distinto, il contrappunto può dispiegarsi col massimo vigore.”