III domenica dopo pentecoste

Link alle letture.

Il tema delle letture è attuale: la qualità dei legami effettivi e del matrimonio. Esiste oggi una cultura che tende a vedere tale istituzione come un’inutile fatica o un’imposizione. Quasi che le storie affettive fossero distanti dalle promesse matrimoniali. Un dubbio si insinua nelle nostre coscienze, quasi a suggerire “che male c’è?”. “Che male c’è” a non vincolarsi nelle scelte? “Che male c’è” a mantenersi liberi nel legami o ad assecondare i momenti (e i drammi) della propria storia?

Eppure proprio su questo punto si gioca una delle testimonianza più grandi del cristianesimo. Tuttavia, è una testimonianza solo se mostra un bene e non se sancisce un obbligo fine a sé stesso o un’inutile prigione dalla quale non si può scappare per costumi sociali. Dove sta allora la bellezza di un amore per tutta la vita? Ci sono a mio avviso due questioni di fondo che vanno affrontate per poter capire le parole di Gesù.

1) La serenità personale, la propria realizzazione, la propria felicità… sono tutte cose belle e importanti, ma non sono l’obbiettivo della nostra vita. Per tutto il pensiero biblico, un uomo è un uomo autentico (felice in senso vero) solo se “ricerca la giustizia e pratica la carità”. Non si è uomini veri e autentici se non si “cerca la giustizia e si pratica la carità”. Se non si è d’accordo su questo punto anche il matrimonio cristiano smettere di avere senso. Per la Bibbia, è meglio un uomo un po’ stressato o affaticato ma che “pratica la carità e ricerca la giustizia” che un uomo sereno ma ripiegato su sé stesso. Cosa significa praticare la carità? Significano tutti quei gesti di cui è fatto un matrimonio: vestire lei o lui perché non è più in grado di farlo, ascoltarlo in tutte le sue paturnie con la pazienza di chi sopporta, far bene da mangiare per dare a lui o a lei il segno di un affetto… Insomma, in un matrimonio sappiamo benissimo cosa significa “praticare la carità”. Ma anche ricercare la giustizia è importate. E’ quello che dice Gesù in questo vangelo: continuiamo a chiamare le cose con il loro nome e a dire “bene” il bene e “male” il male. Mosè, dice Gesù, ha dato la possibilità del divorzio solo per la “durezza del vostro cuore” e non perché sia un “bene”. Il bene che dobbiamo sempre cercare, dice Gesù, è un altro: “al principio non era così…”. Almeno dobbiamo cercarlo. Continuiamo a non mentire a noi stessi, a cercare la giustizia e a dire: “ti ho tradito o ti ho usato” quando sappiamo che alla fine è solo così. Continuiamo a chiamare un fallimento con il suo nome, per quanto ci possa dispiacere. Non dobbiamo smettere di “cercare la giustizia” e chiamare le cose con il loro nome, se vogliamo essere uomini veri, dice Gesù. Solo così è possibile anche il perdono.

2) La promessa del matrimonio è una delle cose più belle che l’uomo può dire perché contiene quest’altra questione: “non siamo in balia delle circostanze”. Il proprio egoismo non è una condanna né un destino obbligato. Molte volte si ha l’impressione che le persone non si sentano responsabili e protagoniste della propria storia, come se gli eventi avessero necessariamente la meglio, come se non fosse possibile “far fronte” alle circostanze difficili. Questo cedimento morale è pericoloso sopratutto per la promessa che cerca di cancellare, diventiamo schiavi delle nostre tempeste, dei nostri umori o delle avversità. Credo invece che la bellezza del vangelo sia quella di far sentire realizzabile e concreta questa promessa che ci costituisce come uomini: “tu puoi”. “Puoi fare fronte al male e alle avversità” non per eroismo personale o per capacità, ma per la vicinanza del Signore, per la sua affidabilità, per la Sua stima verso di te e per la sua infinita capacità di perdonarti cento volte, dando anche a te la forza di perdonare gli altri e le persone che ami.