III domenica dopo Pentecoste

Testi delle letture

Commento soltanto un versetto della prima lettura: “il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse”. Sembra una frase banale, sono convinto invece che dica moltissimo. Anzitutto, non è vero che il primo comandamento è un ordine negativo: non mangiare dell’albero della conoscenza del bene e del male. Prima c’è un comando positivo, prima c’è il senso del nostro essere qui al mondo: noi siamo qui per “coltivare e custodire”. Cosa significa coltivare e custodire?

Per coltivare, sopratutto da queste parti, noi immaginiamo subito il lavoro, diciamo: siamo qui per lavorare. Ma questo non è tutto, c’è di più: è un certo modo di vivere il lavoro. Si puo’ vivere il lavoro in tanti modi: lamentandosi che è pesante, o che c’è la crisi, o che si fanno le cose di fretta e male… oppure si può lavorare sempre facendo solo la stessa cosa, lo stesso prodotto…
Io ho imparato che il come si lavora dipende più da noi stessi che dalle circostanze. Per esempio, ho un amico che fa i turni di notte in un lavoro di controllo macchine molto ripetitivo. Potrebbe vivere la sua vita un po’ frustrato da questo, sopratutto dopo una certa età, magari pensando solo alla pensione. Invece, ha dei ragazzi giovani che lo affiancano e allora si dà da fare per fare in modo che la notte di questi ragazzi passi veloce e li intrattiene e chiacchiera con loro e porta le caramelle alla fine del turno… Piccoli gesti, ma che fanno la differenza. Ecco, coltivare è questo darsi da fare perché la vita e il lavoro anche nelle circostanze più difficili, diventi qualcosa di umano. Anche magari uno stage molto noioso o ripetitivo o apparentemente inutile può diventare qualcosa di umano e molto dipende da noi, dipende dalla nostra voglia di “coltivare”, di imparare da tutto. Einstein faceva un lavoro noiosissimo, metteva timbri su fogli in un ufficio di brevetti, quando scrisse gli articoli più importanti che hanno cambiato la fisica del ‘900. Non era il professore universitario in un prestigioso centro di ricerca del mondo, ma ha saputo “coltivare” quello che aveva.
Questa settimana siamo andati alla casa di riposo con i ragazzi di prima superiore e una signora anziana si è messa a insegnare delle canzoni a un ragazzo… allora gli abbiamo chiesto: “come mai canta così tanto?” Lei ha risposto: “per forza, da giovane si lavorava e allora per far passare il tempo faticoso del lavoro si cantava”… Questo è “coltivare”: metterci la propria fantasia, creatività, inventiva per rendere le cose umane o almeno più belle e sopportabili. Dio dice: “non sai perché sei al mondo? Te lo dico io: sei al mondo per questo, per coltivare”.

Davvero anche con gli adolescenti dovremmo fare così: non basta rimproverare, oggi serve più a nulla, ma bisogna tirare fuori tutta la creatività che si ha e dargli uno scopo. E’ difficile educarli se non gli si dà un compito, un lavoro, un “fare” che produca una soddisfazione. Anche la psicologia lo dice, ma prima di essa la Bibbia direbbe: non si diventa uomini se non si coltiva, se non si vive per “fare qualcosa di buono”, se non si prova la soddisfazione dell’aver “coltivato”.

Però, arriva la secondo parola altrettanto importante e maggiormente dimenticata: “custodire”. La Genesi dice: non basta “coltivare” bisogna anche “custodire”. Cosa significa? Significa che bisogna sapersi fermare e vedere che non tutto più essere coltivato, non tutto è frutto delle nostre mani o del nostro lavoro. C’è qualcosa che non abbiamo creato noi, che non abbiamo fatto noi, ma che dobbiamo custodire perché altrimenti si perde o si rovina. Non è tanto una difesa del primato di Dio –o dell’ambiente naturale da proteggere, come va di moda oggi– ma più in generale dell’altro. Per esempio: per quanto sia un genitore perfetto non posso decidere per il figlio. “Custodire” è banalmente il fatto che “io non sono lui” e “lui farà diverso da come vorrei io”. Oppure, per quanto sia innamorato di una donna, non posso pensare che lei corrisponda necessariamente al bene che io voglio per lei… C’è una alterità che devo custodire, nel senso che devo saper vivere questa passività, questa impotenza, senza vederla per forza come una condanna. Se non sono Dio, non è una condanna.
Saper custodire è la cosa che oggi vedo più in pericolo: un po’ perché la tecnica ci fa credere che possiamo tutto (anche se non è vero) e un po’ perché i mezzi di comunicazione ci permettono di stare sempre vicino a chi vogliamo, dimenticandoci di quella distanza necessaria a custodisce l’alterità.
Per questo sapersi fermare (fermarsi nel lavoro, fermarsi prima di dire tutte le cose che vorremmo dire agli altri…) e saper affidare al Padreterno tutto ciò che sappiamo non essere solo in mano nostra… è un gesto autenticamente umano. Per fortuna non siamo onnipotenti.