III Domenica dopo Pentecoste

Gen 3,1-20; Sal 129; Rm 5,18-21; Mt 1,20b-24b

Uso la parola “vocazione” come filo conduttore di queste letture. Riflettendo su questo tema pensiamo anche ai ventidue ragazzi che ieri sono diventati preti nella nostra Diocesi e celebrano oggi la loro prima S. Messa.

Cosa siamo abituati ad immaginare con questa parola? Ecco condensate in queste poche frasi il nostro pensiero comune: “vocazione” è sinonimo di ricerca di una identità che sembra scritta da qualche parte, che qualcuno trova e qualcuno no. E’ “quello che dovremmo essere” o “che ci rende felici”, come una fatto affettivo o una cosa lavorativa scritta nella carnalità dei propri geni o nelle altezze del cielo (Dio). Vocazione è quello al quale siamo portati e che è necessario scoprire. E’ quello che Dio ha scritto o voluto per noi. E’ qualcosa che qualcuno ha o non ha.

Accade così nella nostra vita reale? Accade così per Giuseppe? La realtà sembra un’altra: i nostri ragazzi crescono e non sanno cosa fare, non sanno cosa gli piace, non sanno cosa diventeranno, non sanno nulla della loro vocazione… Noi aspettiamo che loro trovino la strada, che scoprano dei talenti, ma nella realtà due volte su tre non accade nulla. Vorremmo che succedesse qualcosa o che accada qualcosa per indicarci una strada… ma nella realtà non succede nulla. I ragazzi si iscrivono alle superiori e noi solamente possiamo sperare che si appassionino a qualcosa, questo sembra il massimo nella realtà. Tutto all’opposto rispetto a una cosa che uno ha e deve scoprire… Questa è la realtà: molto più amara e più drammatica dei nostri desideri.

La realtà non sta nei nostri progetti. Io stesso non sono nei miei pensieri. Per citare una espressione che rende bene la drammaticità di cosa sia l’uomo e la sua identità o vocazione: “l’uomo è (si rivela) dove non pensa e pensa dove non è”. Questa espressione significa che l’identità dell’uomo non si vede bene quando uno è a lavoro, o in pubblico, ma nel provato, nel tempo libero, quando è in bagno, quando è in camera sua, quando sogna o anche nelle sue paure (Freud)… Faccio un esempio: una brava maestra che faccia il suo mestiere per vocazione non si lo si nota sopratutto da quando è in classe, ma lo si capisce quando all’intervallo, nel tempo libero, invece di stare a prendere il caffè con le colleghe parla e gioca con i ragazzi.
Ecco perché è troppo superficiale parlare di vocazione quando non si tocca questa identità profonda ed è troppo superficiale pensare che questa identità profonda sia qualcosa fuori da noi che semplicemente si trova o si scopre.

Cosa accade allora a Giuseppe? Cosa dice il Vangelo? Cosa racconta la Genesi? Accade che la scelta dell’uomo sta prima di tutto. Giuseppe poteva benissimo ripudiare Maria come molti seguaci di Gesù decisero di abbandonare la sequela. Di fronte a Gesù molti se ne vanno e qualcuno sceglie di continuare a seguirlo. Lo stesso accade per Giuseppe: senza la sua scelta di dare credito a quell’intuizione che un mistero stava accadendo e che Maria era innocente, senza questa scelta –pur conoscendo bene Maria– nulla accade, nessuna vocazione, nessun Verbo prende carne in una casa.

Nella Rivelazione in Gesù Cristo, non è vero che le cose sono già scritte, ma solo scegliendo uno scopre chi è. Detto in altri termini: la parola vocazione non è sinonimo di ricerca di sé, ma di scelta. E’ un fatto della volontà e non di una predestinazione.
Per questo non accade nulla ai ragazzi o a noi: non accade nulla nella misura in cui non si sceglie nulla, nella misura che si resta ad aspettare che accade qualcosa.

Anche la pagina di Genesi vuole mettere al centro la scelta dell’uomo. Nel tempo del medio giudaismo — dalla ritorno dall’esilio babilonese (538 a.C) alla fine del I secolo a.C. — c’era un problema molto sentito: la questione dell’origine del male. Da dove viene il male, la sofferenza, il peccato? C’erano due correnti di pensiero che davano due soluzioni opposte a questo problema: la prima viene dalla letteratura enochica e apocalittica che pensava a un tempo originario felice e a una caduta dovuta però non all’uomo ma a degli angeli ribelli. In questa visione l’uomo sarebbe sopratutto vittima del male. Nella mitologia: vittima degli spiriti dei giganti che non sarebbero del tutto morti. Non è una visione lontana a quella di una certa visione psicologista che giustifica ogni deviazione di comportamento come patologia… Ma l’uomo non sceglie, è vittima del male.
All’opposto, un’altra corrente di pensiero, molto cara ai sadduccei, diceva che non esiste uno stato precedente di gloria o di paradiso, che non vi è alcuna caduta, ma solo scelta dell’uomo che decide di distruggere e degradare la realtà e il disegno originario di Dio.

Certamente, il testo di Genesi era, per chi lo leggeva nel tempo del medio giudaismo, una risposta alternativa a queste due posizioni. Senza dare alcuna spiegazione all’origine del male (è inutile cercarla) il racconto sottolinea un uomo che non è solamente vittima del male.
Come per al vocazione, è la decisione nostra che ci rende quello che siamo. Anche se non è abbastanza perché nella decisione è contenuta una promessa che precede: si decide solo in base al fatto che ne vediamo una promessa che ci chiama e sta prima di noi, qualcosa che era già lì ad attenderci.

Questo non accade solo ad Adamo o a Giuseppe. Nulla accade in noi di decisivo senza che lo vogliamo e dopo che lo abbiamo voluto e faticosamente scelto ci accorgiamo che in qualche modo quella decisione (con tutta la sua promessa che conteneva) ci precedeva. Questo paradosso costituisce l’inizio di ogni vera vocazione. Solo dentro questo drammatico paradosso ha senso parlare di vocazione, altrimenti saremo sempre o vittime (di Dio come del fato) oppure eroi pelagiani.

Invece, ecco il paradosso nel quale si deve mettere la nostra libertà, ecco la drammaticità nella quale la libertà viene provocata: –scrive Bonhoffer– “quando gli uomini dicono “perduto”, Dio dice “trovato”; dove gli uomini dicono “giudicato”, egli dice “salvato”; dove gli uomini dicono “no”, egli dice “sì”.