III domenica dopo l’Epifania

Nm 13, 1-2. 17-27; Sal 104; 2Cor 9, 7-14; Mt 15, 32-38

Le letture di oggi parlano dell’esperienza di una sovrabbondanza inaspettata. Si tratta di una sovrabbondanza che nasce dalla condivisione di ciò che appare poco, troppo poco rispetto alla domanda dell’uomo. Sette pani e pochi pesciolini appaiono davvero poca cosa per quattromila uomini. Come è possibile che così poco basti davvero per tante persone? E’ tuttavia certamente l’esperienza che ha fatto Matteo nella prima comunità, è lo stesso messaggio delle Beatitudini: come è possibile che poveri, afflitti, umili possano essere beati? Eppure anche Luca aveva fatto questa esperienza quando nel Magnificat scrive: “hai rimandato i ricchi a mani vuote…”.

Si potrebbero dire molte cose su questo tema che sembra un paradosso o qualcosa di miracolistico. Ma se viene letto così, come qualcosa di miracolistico, può essere davvero confuso con la tentazione del Satana nel deserto: “di che questi sassi diventino pane”. Già, due gesti apparentemente simili eppure opposti.

Scelgo due pensieri su questo tema.
Il primo pensiero mi viene dalla mia esperienza personale. Penso infatti che questa “sovrabbondanza di un poco” sia anzitutto un’esperienza che si può fare a patto che ci si fidi del Vangelo. Se penso alla mia vita non posso non riconoscere che questo mi è dato: la povertà che un prete sceglie di vivere (se la sceglie) cosa è in fondo? è il fatto che non hai casa “tua”, non hai una famiglia “tua”, non hai dei figli “tuoi”. Non rinunci alla casa ma rinunci in qualche modo al possessivo “mio”. Perché farlo? Lo si può fare non perché si è dei matti ma perché si conosce l’affidabilità del Signore (a dispetto della inaffidabilità degli uomini). Se esiste questa fiducia il poco diventa molto: una casa l’avrai sempre, avrai mille inviti a cena e “se hai lasciato padre, madre e fratelli” ne avrai centro in cambio. A patto però che ti sia fidato davvero. Intendo dire: dentro il contesto reale di una comunità si può imparare a fidarsi del Signore e dei fratelli (ma più del Signore mi viene da dire) che non ci farà mancare mai nulla. Ma è necessario vivere di una “cassa comune”, è necessario lasciare i “sette pani” e pochi pesciolini che si hanno. Se continui a trattenerli pensando che siano “chissà quanto” li farai marcire di sicuro (come la manna). Intendo dire: se uno continua a vivere da borghese e non molla la presa su nulla, non compie mai un passo di reale fiducia e comunione, quello che gli resta tra mani sarà sempre una povera vita.

Il secondo pensiero lo traggo da un libro molto interessante: Rahnema, “Quando la povertà diventa miseria” (il titolo originale sarebbe “Quando la miseria scaccia la povertà”). Rahnema è un iraniano vissuto poverissimo nel suo paese, poi è riuscito a studiare, è diventato ministro negli anni sessanta in Iran e poi a collaborato con l’ONU per diversi progetti nei paesi in via di sviluppo.
E’ davvero interessante questo libro perché scalza l’ideologia che ci fa credere che noi sappiamo bene cosa sia il tanto e il poco, cosa sia la povertà e la ricchezza, come fossero soltanto questioni di “quantità”. Rahnema dice che povertà e ricchezza, tanto e poco, non sono solo concetti quantitativi. Semplificando: la povertà non è la miseria, pur essendo entrambe esperienze dove manca qualcosa. Dice Rahnema: si può avere molto ma essere poveri, nel senso di miseri, perché insaziabili divoratori di cose, si può avere poco ed essere poveri, non nel senso di miseri, perché pieni di dignità nella propria indigenza.
Scrive ad esempio che ha conosciuto diversi tipi di povertà: «Quella scelta da mia madre e da mio nonno sufi, alla stregua dei grandi poveri del misticismo persiano; quella di certi poveri del quartiere in cui ho passato i primi dodici anni della mia vita; quella delle donne e degli uomini in un mondo in via di modernizzazione, con un reddito insufficiente per seguire la corsa ai bisogni creati dalla società; quella legate alle insopportabili privazioni subite da una moltitudine di esseri umani ridotti a forme di miseria umilianti; quella rappresentata dalla miseria morale delle classi possidenti e di alcuni ambienti sociali in cui mi sono imbattuto nel corso della mia carriera». Tutte povertà, non tutte ugualmente esperienze disumane.
Il libro racconta anche come siano falliti molti progetti che pensavano di combattere la povertà e invece l’hanno trasformata in miseria perché hanno tolto la cultura di una condivisione che rendeva le persone capaci di umanità piena.

Dovremmo meditare tutto questo perché spesso banalizziamo pensando che “la povertà è la povertà” e “o arriva un miracolo” o uno resta povero. Invece, sette pani possono essere povertà dignitosa offerta a molti o posso diventare miseria assoluta. Non è solo la quantità che fa il miracolo.