III domenica dopo l’Epifania

Link alle letture.

Un tema comune alle letture mi pare quello della sfiducia e della lamentela. La prima lettura ha una espressione persino ironica contro la voracità umana che sembra non accontentarsi mai di nulla e guardare sempre la parte mancante. In sostanza Dio dice: “Volete essere ingordi? Bene, avrete cibo non per due giorni, non per venti, ma fino alla nausea, fino a scoppiare!” Quasi come sta capitando a noi oggi che sembriamo scoppiare tante cose abbiamo. Eppure siamo soli, siamo tristi, ci viene la nausea pure per il troppo, al punto che ora il nostro problema è la quantità di ciò che buttiamo.

Verrebbe da chiedersi: perché è così? perché sempre ci lamentiamo? perché sempre pensiamo che i pani e i pesci siano troppo pochi o guardiamo a ciò che non va? Deve essere un problema antico: già i Greci nei loro miti (l’androgino) raccontavano che l’uomo era stato privato di una sua metà e dicevano che Efesto avesse girato la testa degli uomini proprio verso la parte che gli era stata tolta, in modo da indebolirli e condannarli alla ricerca di qualcosa che non potranno mai ricongiungere.

Eppure questa nostra innata lamentosità e ingordigia può essere –se non sconfitta del tutto– messa un poco da parte. E’ possibile credere nella positività della vita, nella sua bellezza anche nei momenti difficili, fuori dalla retorica? E’ possibile vedere moltiplicato il pane, spostare lo sguardo dalle nostre pochezze, agli altri, alla nostra natura, al segno che siamo e che riceviamo nella quotidianità della vita? Forse un modo per uscirne e davvero rileggere la vita come segno e non come possesso.

C’è un episodio che mi ha sempre aiutato a guardare come anche nel deserto più arido può esserci quello che davvero ci serve per vivere da uomini. E’ un capitolo del libro di Primo Levi, Se questo è un’uomo. Primo Levi racconta un episodio che gli è capitato in quel “deserto” che è il lager –certamente ben lontano da quanto di peggio anche a noi oggi possa succedere. Racconta che un giorno, insieme al compagno Jean, uno studente alsaziano, viene incaricato di andare a prelevare la marmitta del rancio. Durante il tragitto tra una baracca e un’altra, il compagno Jean gli dichiara il suo amore per l’Italia e per la lingua italiana. A questo punto, inspiegabilmente, a Levi viene in mente il canto di Ulisse di Dante. Proprio questa memoria dantesca li illuminerà sul proprio destino e aprirà una breve parentesi che permetterà loro di riscoprire la propria natura di uomini.
Durante il tragitto, Levi inizia a recitare a memoria e a tradurre in francese al compagno quel canto dantesco. Capisce, per la prima volta nella sua vita, alcune espressioni alle quali non aveva mai fatto caso. Per esempio, quando Ulisse parla del suo viaggio, scrive:  ..”ma misi me per l’alto mare aperto” — Scrive Levi: “è un vincolo infranto, è scagliare se stessi al di là di una barriera, noi conosciamo bene questo impulso” dice Levi… ma le rime non gli vengono, la sua memoria non ricorda tutti i passaggi, e allora scrive “darei la zuppa di oggi per poter saldare i pezzi”. Ma poi c’è un punto nel quale si ferma e capisce l’importanza di tutto questo. Ricorda i versi 

Considerate la vostra semenza:
Fatti non foste a viver come bruti,
Ma per seguir virtute e conoscenza.

Come se anch’io lo sentissi per la prima volta: come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono.
Jean mi prega di ripetere. Come è buono Jean, si è accorto che mi sta facendo del bene. O forse è qualcosa di più: forse, nonostante la traduzione scialba e il commento pedestre e frettoloso, ha ricevuto il messaggio, ha sentito che lo riguarda, che riguarda tutti gli uomini 
in travaglio, e noi in specie; e che riguarda noi due, che osiamo ragionare di queste cose con le stanghe della zuppa sulle spalle.

E alla fine, quando gli viene in mente il naufragare della barca di Ulisse negli abissi dice:

è assolutamente necessario e urgente che ascolti, che comprenda questo «come altrui piacque», prima che sia troppo tardi, domani lui o io possiamo essere morti, o non
vederci mai più, devo dirgli, spiegargli del Medioevo, del così umano e necessario e pure inaspettato anacronismo, e altro ancora, qualcosa di gigantesco che io stesso ho visto ora soltanto, nell’intuizione di un attimo, forse il perché del nostro destino, del nostro essere oggi qui…

Moltiplicare i pani, smettere di piangersi addosso… è anche ricordarci per cosa siamo fatti, di quali legami abbiamo bisogno, di cosa è segno la realtà che viviamo. Girare la testa, quella che Efesto ci aveva stortato per vedere i nostri difetti, oltre le nostre mancanze, verso gli altri o verso il cielo –come fa Gesù prima di distribuire il pane moltiplicato. Forse anche per questo convertirsi significa girare lo sguardo, voltare direzione. Ricchi o poveri, ne avremo sempre bisogno.