III domenica di Quaresima

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Mi sembra che il vangelo di oggi parta da un risentimento. Gesù dice “conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” e su questa frase parte tutta una polemica fino al tentativo di lapidare Gesù. Come se gli interlocutori si sentissero accusati o provocati su un punto per loro decisivo. Gesù li provoca proprio su quello che a loro sta a cuore: la loro identità di ebrei. Ogni volta che uno si sente messo in crisi sulla propria identità, capita allora che si offenda. Prendiamo sul serio questa provocazione, perché è come se Gesù dicesse a noi che siamo qui: “non pensate mica di essere dei cristiani…” e noi potremmo rispondere: “ma come? sono qui a Messa, prego, sono un bravo prete, sono un bravo genitori, lavoro, pago le tasse… cosa vuoi Gesù da me? Cosa vuoi?

Io invece questa provocazione la sento importante e vitale. Sinceramente. Anzi, la cosa che più mi pesa di fare il prete è che tutto deve andare avanti sempre allo stesso modo. Qualsiasi cosa accada, tu devi dire delle buone parole, devi fare la tua predica, devi confortare chi è in lutto, sostenere chi è nel pianto, devi dire che il Signore è vicino… anche se ci sono momenti dove qualcosa non va, dove non gira, dove il Padreterno è lontano, dove non capisci… Giustamente c’è un ruolo –perché è come un genitore che non può dire “oggi non faccio il genitore”– però, sinceramente, c’è il rischio di pensare che tutto sia lì, che l’importante sia quello che devi dire… c’è il rischio di continuare a fare ogni cosa staccata dalla verità molto più complessa che si vive. E questo vale per tutti. Per questo penso anche che il Signore faccia sempre bene a dirmi: “ancora dovete diventare liberi”, “ancora non conoscete la verità”, “ancora dovete rimanere alla mia sequela”… Fa bene! perché dietro le personali maschere del “bravo padre”, “bravo marito o moglie”, “brava famiglia”, “tutto bene”, “tutto sempre uguale”… in realtà, tolto il risentimento, ci vuole poco a snidare gli idoli che ci facciamo per mostrare a noi stessi quanto siamo poveri. Del resto, diceva Lutero: “l’idolatria percepisce ricchi compensi, la verità va in giro a chiedere l’elemosina”.

Racconto un esempio. L’altro giorno telefono a un medico per chiedergli un parere. E’ un contatto che ho tramite un amico, dico al telefono: “Buongiorno dottore, avrei bisogno…”, ma lui mi interrompe e aggiunge: “no guardi, io sono il primario! Io non posso parlarle così, lei deve chiamare la mia segretaria e prendere appuntamento…”. Dentro di me pensavo che nel tempo che lui mi spiegava che era un “primario” ecc, avrebbe potuto benissimo risolvere in un minuto il mio dubbio. Ma la questione è: perché un uomo di cinquant’anni ha così bisogno di mostrare “un titolo”, di mostrare “chi è”? Non è il segno che siamo davvero fragili o schiavi?
E’ un esempio, per dire che ciascuno ha bisogno di appoggiarsi a qualche cosa nella vita: “il titolo”, “un sogno”, “un progetto”, “i figli”, “il calcio”, “un successo”, “lo sport”… ecco, non c’è nulla di male in tutto questo, però spesso mi rendo conto di quanto sia difficile vivere senza “punti di appoggio”, senza farsi un qualche “idolo” ed essere un po’ “schiavi”, senza vivere nella necessità di qualche effimero “sostegno” che ci appaghi per qualche momento. E allo stesso tempo, quanto questi idoli possano diventare mortali, insufficienti alla grandezza della vita, adatti per rattrappire il nostro desiderio. Io penso che accorgersene, cioè vedere con grande serenità –senza risentimento– quanto siamo fragili, quanto non bastiamo a noi stessi, quanto a volte questi idoli (come nella prima lettura) ci rendano arroganti o chiusi… sia già avvicinarci al Signore. Diceva Giorgio Gaber: sapere che da una parte c’è “l’uomo inserito che attraversa ossequiosamente lo squallore della propria sopravvivenza quotidiana”, dall’altra c’è il desiderio di non ridurci a questo, di non farci bastare del tutto le nostre distrazioni, di non accontentarci degli idoli, magari nell’arroganza di chi si pensa anche migliore degli altri.